Eugenio Corti, lo scrittore che invidiava le farfalle oggi ci insegna il senso della patria
Idolatrato in Francia, da noi è stato snobbato fino alla morte. «Il cavallo rosso» sulla campagna di Russia, esploso grazie al passaparola, mette al centro fede, famiglia e ruolo del lavoro per la dignità dell’uomo
Modernissimo. Anche se fino a 93 anni ha scritto e studiato nella stanza dov’era nato, con la scrivania davanti alla finestra per vedere le Prealpi lombarde. Anche se parlava della patria come dell’«eredità lasciata dai padri». Anche se diceva che una farfalla basterebbe a dimostrare l’esistenza di Dio (maiuscolo). Eugenio Corti, uno dei cinque più grandi scrittori italiani del Novecento – gli altri quattro sceglieteli voi, o forse li avete già sul comodino – è modernissimo. Proprio perché parlava, scriveva e viveva così. E a tre anni dalla morte continua a ricevere lettere come se fosse eterno, nella sua casa gialla di Besana Brianza dove nacque il 21 gennaio 1921, curiosamente e per una forma di contrappasso, il giorno della fondazione del Partito comunista italiano.
Eccidi e battaglie
Continuano ad arrivare da tutto il mondo e a migliaia, le lettere. Dall’Uruguay: «Anche se ci separa un oceano, ci unisce la verità». Da più vicino: «Vorrei essere di carta per entrare nel libro. Quando leggo queste pagine mi sento a casa». La casa è quel Midwest dell’anima che si chiama Brianza, luogo fra Como, Lecco e Monza con i confini labili e l’identità forte, dove si esprime in sommo grado la dignità del lavoro e dove il cattolicesimo lombardo mostra la sua concretezza nel senso della comunità. Le pagine sono le 1.274 de Il cavallo rosso, il capolavoro di Corti, il Guerra e pace italiano che cerca la forza del destino non nelle cavalcate dei principi o nelle lacrime delle contesse, ma nelle speranze, nell’orrore e nelle rivincite della gente comune. Dalla Brianza felice del contadino Stefano, del borghese Ambrogio, dell’intellettuale Michele alla Sacca del Don nel 1942, all’offensiva russa, alla ritirata italiana e tedesca, agli eccidi, alle sofferenze, agli eroismi, alle battaglie 11 volte vinte verso Nikolajevka da quei disperati a 30 sottozero (e Corti era lì con il grado di sottotenente) per sfondare il fronte dei sovietici e tornare a casa. E poi alle battaglie di pace del dopoguerra, della ricostruzione, per plasmare un Paese nuovo.
Schiena dritta
In questi casi si dice che «ci vorrebbe Omero per raccontare una così grande tragedia di uomini». Ma Corti è un Omero del Novecento e i lettori se ne sono accorti; lo testimoniano le 32 edizioni che Ares ha messo insieme come medaglie, cogliendo la pepita nascosta dall’ignavia degli intellettuali. Come spesso accade per i capolavori, ha vinto il passaparola planetario. Certo, perché le opere del «grande brianzolo» erano rimaste ai margini della cultura ufficiale. Troppo diverse, troppo scomode, troppo incomprensibili per i polli d’allevamento della critica, avvezzi a becchettare nell’aia della sinistra militante. E così disarmati davanti a un italiano dalla schiena dritta, a un testimone gentile e preciso, a un formidabile cattolico che raccontava un’altra storia, da dimenticarselo volutamente in un cassetto.
Combattente
Eugenio Corti non ha mai sofferto questa censura. Lo spiega Paola Scaglione, la sua biografa, che all’opera dello scrittore ha dedicato lo stupendo volume-intervista Parole scolpite. «Non l’ho mai sentito lamentarsi dell’ostracismo ideologico. Lo vedeva ma non lo riteneva importante. Il suo sguardo andava oltre, più lontano, verso l’eternità. Diceva: “Non sono certo di avere combattuto bene, ma di avere combattuto sì. E spero che Domineddio mi riconoscerà fra i suoi, perché ho combattuto per la verità”. Pensava che la disattenzione dei critici dipendesse dal suo essere fuori dai canoni. Per lui era evidente che i nemici della verità non gradivano il suo servizio alla verità. Non si stupiva ma continuava a lavorare perché sapeva che lo scopo del suo essere al mondo era scrivere al servizio della verità e a gloria di Dio». Chiusa la stagione delle ideologie, oggi è più facile trovare punti d’incontro. Anche perché nessuno può più tenere Eugenio Corti in disparte, dopo che la Francia lo ha adottato, La Sorbona lo ha celebrato con un convegno (la seconda parte si è tenuta nel giugno scorso all’università Cattolica di Milano), Claude Barthe lo ha inserito come unico italiano nell’antologia della letteratura cattolica del Novecento, il critico Sébastien Lapaque ha scritto su Le Figaro: «E uno degli immensi scrittori del nostro tempo. Uno dei più grandi, forse il più grande». Quando i francesi vogliono farci sentire in colpa ci riescono benissimo. Così l’astronauta Carlo Nespoli gli ha fatto gli auguri dallo spazio quando ha compiuto 90 anni. E il 14 febbraio l’opera di Corti approda finalmente alla Camera dei deputati per la celebrazione ufficiale. Titolo: L’eredità lasciata dai padri. Eugenio Corti, un maestro dei nostri tempi.
Curioso
L’eredità del «grande brianzolo» sta nella fede concreta e vissuta, da quella notte di Natale del 1942 nella valle di Arbusov (la valle della morte nel ricordo dei reduci), quando ritenne che non c’era più niente da fare. Allora distrusse tutti gli appunti e le reliquie donategli da sua mamma, per evitarne lo scempio. Promise alla Madonna: «Se esco salvo dedico la mia vita al regno di Dio. Venga il tuo regno». Approfondisce Paola Scaglione: «Corti non era un volontario come alcuni hanno scritto, ma dopo essere diventato sergente chiese di essere mandato in Russia per toccare con mano l’esperimento comunista di un mondo senza Dio, per vedere come era stato realizzato. Era convinto che i tedeschi avrebbero vinto e avrebbero spazzato via questo esperimento sociale e umano, quindi voleva conoscerlo».
La comunità
L’attualità di Corti sta nel senso della patria: «Se faremo tutti la nostra parte potremo crescere i nostri figli come vogliamo noi. Italiani e cristiani». Sta nel senso della famiglia come comunità oltre l’individualismo, con la forza di tralasciare il monosillabo io per privilegiare il noi. «Semm al munt per vutass», siamo al mondo per aiutarci, dice mamma Giulia nel Cavallo rosso. La sua modernità si realizza anche nel senso del lavoro come piedistallo per la dignità dell’uomo, eredità di suo padre che da operaio era diventato imprenditore. E per mettere in pratica questo insegnamento, fino a 93 anni non c’è stato giorno che non sia andato in studio a lavorare. «È molto attuale anche nell’identità e nel valore del territorio», spiega Paola Scaglione, «intesi non come chiusura e non in senso campanilistico. Per lui la Brianza è sempre stata un modo di essere, la prospettiva da cui guardare il mondo. Ma una prospettiva esistenziale aperta, non arroccata. Le sue radici erano solide. Quando passeggiavamo in montagna mi fermava con una mano sul braccio, in silenzio. E mi diceva: “Senti gli usignoli”. Amava gli uccelli, li riconosceva immediatamente dal canto».
Incubo ricorrente
I suoi fan considerano la morte di Stefano e l’ultimo coro per il capitano Grandi capolavori assoluti, come arie d’opera dentro Il cavallo rosso. Per l’autore non è proprio così. «Amava molto quei due passi», ricorda Paola Scaglione, «ma quando mi ha detto di avere scritto il più bel brano della sua vita si riferiva a quello sulle farfalle ne Gli ultimi soldati del re. Quelle farfalle appoggiate alla trincea, dai colori stupendi, che non si accorgono di vivere né di morire». E torniamo metaforicamente lì, dove tutto cominciò. Nella sacca del Don dove Eugenio Corti per anni si è svegliato a gridare ordini a soldati che non lo seguivano più. Nel tentativo di salvare loro la vita.
(Giorgio Arnaboldi, 10/02/17, La Verità)