Il romanzo epico di Eugenio Corti ha una quinta riccionese
L’iniziativa.
Da oggi il Giornale manda in edicola, in allegato al quotidiano, in tre tomi, Il cavallo rosso, il romanzo epico di Eugenio Corti (1921-2014). Che ce ne frega? Adesso ve lo dico.
Il romanzo inaccettabile.
Eugenio Corti, brianzolo, parente, per parte della nonna paterna, di papa Pio XI, divenne fuggevolmente celebre per le cronache letterarie nel 1947. Il suo primo libro, I più non ritornano, edito da Garzanti, racconta l’orrore della ritirata di Russia, durante la Seconda guerra, ne è “una delle testimonianze più belle e più straordinarie” (Giulio Nascimbeni), che colpì, per il “non frequente lampeggiare della bontà e della nobiltà umana” pure Benedetto Croce. Corti, tuttavia, refrattario ai club intellettuali, non si lasciò imbrigliare e imbrogliare nella categoria degli scrittori-soldati, quelli dei romanzi ‘testimonianza’ – un po’ come Rigoni Stern, Revelli, Levi, Bedeschi… In Russia, Corti ha visto le fauci dell’orrore. Ha studiato, con ferocia analitica, il regime comunista. Si decise, dopo aver scritto un testo teatrale di lucida intensità, demonizzato dalla sinistra, Processo e morte di Stalin (1962), di lavorare a un potente, omerico romanzo anticomunista. Il romanzo inaccettabile.
Contro tutto e tutti.
Il cavallo rosso fu scritto nell’arco di dieci anni, per tutti i Settanta, quando Eugenio Corti aveva perso tutto e si sentiva contro tutti. Azienda di famiglia fallita, sistema letterario italiano sotto egemonia ‘rossa’, che lo taglia fuori dalla fama, crisi successive. Dal cuneo del dolore sorge una epopea micidiale, il primo vero romanzo ‘europeo’ italiano, che traccia, dal 1940 al 1974, la storia della famiglia Riva con una lingua ampia, onnivora. Il cuore epico del romanzo è la Seconda guerra; il cuore etico un poderoso, muscolare, atto d’accusa contro i totalitarismi, anzi tutto contro il sistema comunista. Il libro sconvolge le anime pie – anzi, ideologizzate – dell’editoria italiana. Troppo lungo – 1500 pagine – troppo anticomunista, nessuno vuole pubblicare Il cavallo rosso. Per fortuna, nel 1983, s’imbarca nell’impresa eroica Cesare Cavalleri, fondatore delle edizioni Ares, tenace e stimato editore cattolico. Il libro segna il successo senza precedenti del suo autore, Corti, il cui romanzo è paragonato a Vita e destino di Vasilij Grossman e ad Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn, ma anche della casa editrice: le ristampe superano la trentina, le traduzioni nel mondo non si contano. Su Corti, vinte le ritrosie partitiche, piovono civici premi – compresa la Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura assegnatagli dal Presidente della Repubblica – e nel 2010 in migliaia si mobilitano per candidarlo al Premio Nobel per la letteratura.
Nel cuore di tenebra dell’orrore comunista.
Ma perché il romanzo di Corti continua a dare fastidio? Perché è un romanzo ‘di idee’, perché è un romanzo politicamente scorretto. Corti è il primo, intanto, a scrivere che tra nazismo e comunismo non c’è differenza: entrambi hanno perpetrato l’orrore ‘a fin di bene’ (“marxismo e nazismo […] erano dello stesso sangue”). Scrive ciò che nessuno osa scrivere, cioè che c’è stata una infame, ragionata strategia politica per negare i crimini comunisti esaltando quelli nazisti: “l’orrore sempre rinnovato per l’indubbiamente nefando sterminio di sei milioni di ebrei (ad opera dei nazisti, da anni ormai scomparsi dalla scena) aveva conseguito lo scopo d’annebbiare le rivelazioni sullo sterminio di circa venti milioni di contadini piccoli proprietari ad opera dei comunisti”. In sostanza, Corti scopre che il genio del comunismo è “far cambiare a ogni uomo la sua coscienza e la sua natura” tramite “la violenza come levatrice della società nuova”. Che vuol dire? Questo: “montagne e montagne di cadaveri. I comunisti insistevano su questa strada perché il fermarsi avrebbe comportato la rinuncia all’utopica società nuova – libera dai mali di tutte le società precedenti – per costruire la quale essi avevano ormai fatto un così sterminato numero di morti. Quanti? Certamente molti ma molti milioni”. La strada per il paradiso in terra è lastricata di cadaveri e di lacchè. A dire di Corti – ed è questa la forza apocalittica che anima il romanzo, esteticamente magniloquente – è in atto una battaglia senza quartiere tra il “cristianesimo, che è amore”, e i sistemi anticristiani che uccidono in previsione di un mondo migliore domani e un mondo stupendo oggi per chi ha i soldi – nazismo prima, comunismo poi, islamismo radicale e illuminismo radical chic – per la serie, rimpinziamo panza e portafogli ma annientiamo il pensiero imponendo stronzate ai cittadini – oggi.
…e che importa a noi? Corti a Riccione.
Belle parole, ma a noi che c’importa? C’importa che un brandello importante del Cavallo rosso è ambientato tra Riccione e Rimini, “in una colonia fascista per ragazzi trasformata in convalescenziario”. Lì si trova, ferito in guerra, Ambrogio, in un “edificio arioso e molto balneare, con grandi vetrate, che sorgeva sulla spiaggia poco fuori città lungo la via litoranea per Rimini”. Insomma, è una delle colonie, tra ‘Bolognese’ e ‘Novarese’, che un tempo erano un vanto e ora sono un obbrobrio, la ferita imprenditoriale aperta – e suppurante inedia – della costa riminese. I capitoli ‘riccionesi’ sono intensi, al di là della descrizione marina – “il mare, sempre uguale a sé stesso quello; non fosse che ora, così deserto, inspirava un senso di dilatata solitudine” – accade l’incontro tra Ambrogio e i genitori, il vagare “nella via principale di Riccione” – viale Ceccarini, si presume – e “la messa in una chiesa quasi vuota”. Non manca l’accusa alla retorica fascista – le cartoline con “la stampigliatura Vinceremo!”, “sgrammaticata eco di riflessioni, fatti, tedio, viltà ed eroismi” – e la rampogna alla landa romagnola di ‘strozzapreti’ e di anticattolici – “qui siamo in partibus infidelium, ricordò Ambrogio”.
…e che c’importa? Parte seconda.
Culturalmente, bisogna essere in grado di leggere le stelle e le coincidenze. Bisogna essere gravidi di idee. Beh, la coincidenza che il più importante romanzo ‘cattolico’ italiano abbia una quinta riccionese è pazzesca. Che c’importa? Lo dico subito. Riccione è (stata) la terra dell’edonismo. Se fossi un amministratore brillante alternerei un ripensamento dell’edonismo a una analisi delle spiritualità. Un tempo mi ero pure sprecato nell’inventare un brand, “Sotto Spirito. Le Giornate della spiritualità a Riccione”, giocando con gli estremi – che sono propri del pensare religioso. Esempio: a speculare di economia invitiamo un eremita. A parlare di letteratura invitiamo la moglie di Eugenio Corti, a cui andrebbe, postuma, assegnata una cittadinanza onoraria. D’altronde, le discoteche chiudono e le chiese che propongono sistemini per vivere felici prolificano, bisognerà pur parlarne, vero? Parole vane al vento. Resta la stuzzicante domanda: ma i candidati a Sindaco di Riccione hanno mai letto Il cavallo rosso? Secondo me no. Alla prossima puntata scopriamo cosa leggono davvero.
(Davide Brullo, 18/04/17, Riminiduepuntozero)