La postfazione di Cesare Cavalleri
E così, giunti alla parola Fine, dopo 428 pagine di battaglie, di sentimenti, di confronti, di pensieri, di caratteri, verrebbe voglia di chiedere, di gridare: “Ancora, ancora!”. Vorremmo stare ancora di più con Aulo, con Valerio, con Licinia, con Annibale e Scipione, con tutti i personaggi, grandi e minuti, che fanno corona a Catone, e che Eugenio Corti ha fatto rivivere per noi: ce li ha fatti conoscere, ce li ha messi accanto. Meglio: ha messo noi accanto a loro. Perché la voglia di saperne di più, di capire di più, dopo 428 pagine appassionanti, è la voglia di capire di più noi stessi, di guardare più a fondo dentro di noi.
Leggere è entrare nel sogno dello scrittore. L’ha detto Aragon, e per una volta siamo d’accordo con lui. Quando leggiamo un libro, infatti, il pensiero dello scrittore subentra ai nostri pensieri; pensiamo i pensieri da lui pensati, sogniamo i sogni da lui sognati. Corti ha pensato, rivissuto l’epopea storica di Catone, e noi l’abbiamo pensata, rivissuta con lui.
Giunti alla parola Fine, vogliamo ripensare. Ripensare, innanzitutto, la forma del romanzo che abbiamo letto. Eugenio Corti lo presenta come suo terzo apporto alla “cultura delle immagini”, dopo La terra dell’Indio e L’isola del paradiso. Ma attenzione: Corti non vuoi fare concorrenza al cinema, anche se questi tre romanzi sembrano presentarsi come sceneggiature e del resto se ne potrebbero ricavare tre bellissimi film: siamo e restiamo nel terreno della letteratura, per cui i “romanzi per immagini” di Corti – e particolarmente questo Catone – sono e restano, innanzitutto, romanzi. Più che un apporto alla “cultura delle immagini”, dunque, questa sorprendente prova narrativa è un’altissima risposta (o una sfida) della letteratura alla “cultura delle immagini”.
Peraltro, Corti ha sempre fatto così, fin dal Cavallo rosso. I brevi capitoli in cui è scandito quel capolavoro di 1.280 pagine, infatti, che cosa sono se non sequenze cinematografiche predisposte per un regista di genio? Ma II cavallo rosso, giunto alla diciannovesima edizione italiana e già tradotto in sei lingue, è, vittoriosamente, un romanzo, non un film. Non stiamo facendo confronti di qualità tra espressioni artistiche: stiamo parlando di specificità di ciascuna di esse, e lo specifico di Catone l’antico è la parola, la letteratura. Corti è riuscito a tradurre le immagini in parole, immagini che egli non ha raccolto da uno schermo ma che ha formato alla perfezione nella sua mente attraverso un’esperta navigazione nelle fonti storiche, riuscendo a far metabolizzare al lettore 428 pagine che si traducono in immagini mentali del lettore stesso.
In questo Corti è fedelissimo a quello che ritiene il più alto insegnamento di Catone, “anche per noi oggi” (p. 60): “Rem tene, verba sequentur”. Se i concetti sono chiari, se le fonti sono state esplorate a dovere, le parole vengono da sole, con la leggibilità (frutto di lungo studio e di vocazionale perizia) delle 428 pagine che ci hanno accompagnato. Il solido realismo storico e filosofico di Corti si traduce organicamente in altissima letteratura.
C’è un particolare molto significativo sul modo in cui Corti intende il “romanzo per immagini”. Netta Nota a p. 355, a proposito del trionfo di Lucio Emilio Paolo, scrive: “A completamento di quanto abbiamo già esposto [nel testo], pensiamo possano interessare il lettore (per lo spettatore temiamo invece che riuscirebbero troppo lunghe) anche queste altre notizie, sempre da Plutarco”. Ecco la differenza: al cinema certe descrizioni (certe immagini) “riuscirebbero troppo lunghe”, mentre vanno benissimo per il lettore, e infatti i Pro episodi, i Medaglioni, le Contaminationes, vengono a specificare e ad arricchire l’originalità di questo romanzo.
Ma ripensiamo, a lettura ultimata, anche al nucleo tematico del romanzo. Protagonista assoluto, naturalmente, è Catone, di cui, episodio dopo episodio, seguiamo tutta la carriera: lo vediamo avvocato alle prime armi, questore in Sicilia, edile della plebe con l’incarico ludorum (agli spettacoli), pretore in Sardegna, senatore, console in Spagna (da cui ritorna in trionfo), tribuno militare e finalmente censore, sempre con l’assillo dello scrivere, di registrare per la storia e per il costume.
In ognuna delle fasi del suo cursus honorum Catone ha modo di svolgere l’opera di moralizzazione a cui si sente chiamato: non a caso, appena nominato censore si adopera per riformare le fognature di Roma, in una smania di pulizia esteriore che rispecchia la sua sete di moralità che giunge a vertici anche eccessivi. Abbiamo sorriso quando l’abbiamo visto far lastricare con sassi aguzzi le strade del centro di Roma per ostacolare il passeggio dei perdigiorno; o quando ha fatto radiare un senatore che aveva baciato in pubblico la propria moglie. Ma egli è giustamente implacabile nell’opporsi all’onore del trionfo a Termo, macchiatosi di crudeltà verso i nemici, così come è contrario al trionfo di Nobiliore che già si era fatto dedicare un poema del poeta Ennio.
Corti segue con passione le gesta del protagonista, senza peraltro abdicare al senso critico: toccanti le scene domestiche in cui Catone insegna a nuotare al figlioletto Marco, che ha i capelli rossi come il padre, e straziante (e letterariamente splendida) ne è la rievocazione in flash back quando, ormai vecchio, gli giunge in Senato la notizia della morte di Marco, quasi quarantenne. E non ci vengono nascosti neppure i difetti di Catone: la sua severità talvolta ostinata, il cedimento lussurioso in vecchiaia con la schiava Lidia.
Ma, soprattutto, la fisionomia di Catone viene scolpita da Corti attraverso il confronto con i due grandi deuteragonisti, Annibale e Scipione.
Va riletto, al riguardo, l’importantissimo Medaglione dedicato a Scipione l’Africano nel Venticinquesimo pro episodio (p. 302). Lì Corti quasi confessa di non saper scegliere “se dobbiamo ammirare di più l’operato di Catone, rozzo fino alla villania, ma giustamente teso a salvaguardare le patrie istituzioni, oppure la luminosa umanità di Scipione”. Perché “l’antico, puntiglioso, ringhiante Catone” stroncava sul nascere qualsiasi tentativo di gestione personalistica del potere, contrastando perfino il suo quasi coetaneo Scipione, il vincitore di Zama, che Corti considera “naturaliter christianus” anche per la sua mitezza verso i vinti.
Grande è l’ammirazione di Corti (e nostra) per il genio guerriero di Annibale, il trionfatore di Canne, che è stato a un passo dalla conquista di Roma e che, dopo Zama, va ramingo in esilio, collaborando a piccole scaramucce in regni di provincia, fino al suicidio quando si vede ormai braccato dai romani.
Catone, Scipione e Annibale sono paragonabili tra loro? Corti osa rispondere di sì, e conclude: “Annibale il più grande – Scipione il più realizzatore (e umano) – Catone il più utile alla salvezza inferiore del mondo romano, quindi anche del nostro”.
Perché la sfida non è tra le personalità pur grandissime di tre giganti della Storia, bensì tra le diverse concezioni del mondo che si fronteggiano nella loro epoca: la visione cartaginese della realtà, dominata dall’economia (Corti audacemente considera i cartaginesi dei marxisti ante litteram,); la filosofia greca della decadenza, disancorata dalla saldezza della verità; e la fedeltà romana ai principi di libertà, di lealtà e di sobrietà, della quale Catone si fa campione: aleggia, in tutto il romanzo, l’esemplarità dell’antico console Manio Curio Dentato, colui che ritornava al proprio campicello dopo le grandi gesta in difesa della patria, esponente sommo di quella mentalità agraria che ha forgiato il miglior carattere romano, e il suo formidabile esercito.
Catone non è certo uomo del dialogo, anzi ne aborre. Verso Cartagine ha un solo obiettivo: distruggerla, toglierla di mezzo (Corti non riporta il troppo celebre “Delenda Carthago”, che suonerebbe kitsch: a p. 400 parafrasa il motto in italiano). E verso la cultura greca, che pure studia e ammira, fa energicamente di tutto per evitare che i giovani romani ne restino contaminati. Il trapasso generazionale, epocale e culturale lo vedrà perdente: la Repubblica sarà soppiantata dall’Impero, l’austera moralità romana si corromperà.
Il lettore trarrà per proprio conto le conclusioni, applicandole al trapasso della modernità in cui siamo tutti coinvolti. Va segnalata, tuttavia, la profonda differenza tra il nostro mondo e quello di Catone: noi possiamo contare sulla Grazia che Cristo ci ha guadagnato con la sua incarnazione, morte e risurrezione, mentre l’antico Censore aveva risorse solamente umane.
Tutto questo, e molto altro, è nel romanzo di Eugenio Corti, raccontato con perizia narrativa, consegnandoci nelle 200 scene dei 36 episodi, personaggi e situazioni indimenticabili. Abbiamo ammirato i giovani ardenti, fedeli alle tradizioni degli avi e impazienti di compiere grandi gesta, come il diciassettenne Aulo, che ritroveremo saggio senatore nelle ultime scene (diciassette anni è quasi una cifra apotropaica: diciassettenne è Catone all’inizio del romanzo; a diciassette anni Scipione salva il padre nella battaglia del Ticino; diciassettennne è Publio quando stringe amicizia con Marco, che ne sposerà la sorella); abbiamo apprezzato la nobile amicizia di Lucio Valerìo Fiacco, che sarà il mentore del plebeo Catone, incoraggiandolo e sostenendolo in tutta la carriera; abbiamo tremato nelle battaglie che Corti sa descrivere con vivezza più che cinematografica; abbiamo partecipato alla caccia al cinghiale in Val Nerina; abbiamo percepito la tristezza dell’oltretomba pagano quando il vecchio fattore Assio visita la tomba della moglie, e quando la maschera della defunta Licinia vanamente si illumina durante il cordoglio dei famigliari; abbiamo intuito il pericolo delle discussioni sofistiche di Carneade che nega l’esistenza della verità; abbiamo capito che la Storia è governata da una potenza superiore alle forze di chi sembra in grado di modellarla… Sì, tutto questo, e molto altro, è nel romanzo e ci è stato comunicato attraverso una misura di Bellezza. Dicono i filosofi che la Bellezza è appunto il legame, il coagulo degli altri trascendentali dell’essere: l’Unità, la Bontà, la Verità. Ecco perché Eugenio Corti può affermare che “la grande arte (cioè la somma Bellezza) spiega la storia meglio delle analisi storiche più erudite”.
Ed ecco perché questo romanzo ci ha tanto commosso e segnato: perché è grande arte, grande letteratura.
(Catone l’antico, Ares, 2005)