Eugenio Corti, un caso letterario
A Besana in Brianza vive uno scrittore che è senza dubbio uno dei migliori del panorama italiano e non solo. Si chiama Eugenio Corti, compirà ottanta anni nel gennaio 2001 e continua a scrivere ininterrottamente dagli anni settanta quando, interrompendo ogni attività, si dedicò completamente alla scrittura. Uno scrittore che ha volontariamente scelto l’età matura per scrivere, anche se a ventisei anni pubblicò “I più non ritornano” drammatica testimonianza della ritirata del fronte russo del dicembre-gennaio 1942/43, probabilmente pensando che solo chi ha esperienza può poi trasmettere sentimenti agli altri attraverso i libri.
Il suo capolavoro, pubblicato nel 1983 per i tipi delle Edizioni Ares di Milano, si intitola “Il cavallo rosso”: no, nel libro non ci sono riferimenti al nobile animale, il titolo è preso dall’Apocalisse (6,4 Ed ecco, uscì un altro cavallo, rosso, e a colui che vi stava sopra fu dato il potere di togliere la pace dalla terra, e di far sì che gli uomini si sgozzassero fra di loro, e gli fu consegnata una grande spada). E questo richiamo alle Sacre Scritture si comprende benissimo visto che il libro racconta la storia di una famiglia brianzola (i Riva, e tutti gli altri personaggi ruotano intorno a questa famiglia patriarcale) dal 1940 al 1974 e gli anni di guerra, dove il cavallo rosso corre inarrestabile, occupano gran parte del romanzo. Sono più di mille pagine, che possono impressionare all’inizio ma che alla fine lasciano il lettore con il dispiacere di non averne altre mille da leggere, tanto sono intriganti e coinvolgenti (il dispiacere rimarrà, E. Corti considera l’opera compiuta).
Il piacere della lettura è dato anche dal fatto che, accanto a personaggi di fantasia ma fortemente autobiografici, ci sono personaggi realmente esistiti: si tratta quindi di un romanzo storico, che si può leggere come un affresco degli anni centrali del Novecento così come “I promessi sposi” di Manzoni servono per capire il Seicento. Ho citato il Manzoni non a sproposito, perché molti paragonano questo libro al capolavoro manzoniano, così come altri, forse più correttamente, citano “Guerra e pace” di Tolstoi e il nostro Vescovo Maggiolini scomoda “Il mulino del Po” di Bacchelli. Romanzi importanti, fondamentali, tali da far sembrare irriverente il paragone a chi non ha letto l’opera di E. Corti, mentre sono naturali e quasi obbligatori per quanti hanno affrontato le sue pagine, che sono tanti visto che in Italia si è giunti alla tredicesima edizione e il romanzo è stato tradotto anche in francese, spagnolo, romeno e nell’ottobre scorso è finalmente uscita la traduzione in inglese.
Nonostante questo indubbio successo di pubblico, “Il cavallo rosso” è stato praticamente ignorato dalla critica letteraria: se si escludono i giornali cattolici e qualche giornale di provincia in cui c’è una forte componente cattolica, non esistono in Italia saggi sul romanzo di Corti. Questo singolare atteggiamento ha naturalmente una spiegazione. A mio modesto parere due sono le cause dell’ostracismo: la prima è che il libro di Corti è una testimonianza forte della presenza di Dio nella storia dell’uomo e questo può dare fastidio nel nostro mondo scristianizzato; la seconda, di sicuro la più importante, è dovuta al fatto che Corti dimostra, con un ragionamento logico e lineare, l’equiparazione fra nazismo e comunismo, i due volti identici della barbarie totalitaria. Entrambi uniti dal fatto di essere movimenti atei, entrambi mossi da analoghi meccanismi d’odio (il mito della razza o della classe eletta). Anzi, il comunismo è più pericoloso perché il nazismo, con il suo mito della razza, è limitato e non universale ed esportabile in tutto il mondo come il marxismo. Come potete capire non c’è nulla di più politicamente scorretto che paragonare nazismo e comunismo e, considerato che l’egemonia gramsciana nel piccolo mondo letterario italiano permane tuttora plumbea e ferrea, non dobbiamo stupirci che “il cavallo rosso” non abbia recensioni. Piuttosto, sorprende che quotidiani con una linea politica certamente non di sinistra abbiano le pagine letterarie succubi o conviventi con la critica marxista (Corti parla apertamente di una mafia letteraria che decide chi promuovere o boicottare fra gli scrittori).
Il discorso cambia quando si lascia la penisola e si sale in Europa: nel mondo francofono ci sono numerose recensioni, alcune contrarie ma altre entusiastiche come quelle dei critici di religione calvinista; incredibilmente i calvinisti, che dovrebbero essere i protestanti più lontani da Roma, ammirano il romanzo del cattolicissimo Corti. Il motivo di tale sorprendente entusiasmo si spiega – cito il calvinista J.M. Berthoud – con il fatto che nel romanzo di Corti c’è (..) il ristabilimento della normalità della visione cristiana in tutti gli aspetti della realtà (laddove la secolarizzazione atea appare, per contrasto, anormale, fuori dalla realtà, vuota) (..); con stupore, possiamo commentare che Corti, senza flettere da posizioni integralmente cattoliche, è riuscito nella formidabile impresa di giungere ad un ecumenismo autentico.
Di tutto questo parlo con Corti nella sua bella dimora di Besana, la Nomana del libro. Per me è una emozione particolare trovarmi nella casa che è poi quella della famiglia Riva del romanzo, specialmente quando la moglie di Corti ci offre il tè e mi accorgo che ha veramente il viso da statuina di marmo come Alma, la moglie di Michele Tintori, lo scrittore che è il personaggio più autobiografico del libro. Nonostante qualche acciacco, Corti porta benissimo i suoi quasi ottanta anni: visto dal vivo non ha quel cipiglio severo delle fotografie, gli occhi azzurri ed il modo di parlare soave trasmettono autorevolezza non disgiunta da pacatezza. E’ veramente convinto di quello che dice, vede il suo lavoro di scrittore come una missione (dice testualmente: “Io conto di utilizzare le possibilità che Domeneddio mi ha dato, lasciandomi vivere durante la ritirata di Russia, per l’avvento del Regno, scritto con la lettera R maiuscola. In me la strada migliore è quella del libro”). Sa di essere uno scrittore non catalogabile, fuori dal giro che conta, ma non se ne cura più di tanto, per esempio non vuole che la sua casa editrice lo iscriva ai concorsi letterari, mentre è orgoglioso del Premio Internazionale Cultura Cattolica per l’anno 2000 conferitogli il 27/10/2000 a Bassano del Grappa perché tale riconoscimento è già stato assegnato ai filosofi Augusto Del Noce e Padre Cornelio Fabro, suoi amici e maestri, e ai Cardinali Biffi e Ratzinger.
In conclusione, il fatto che la critica ufficiale ignori questo libro ed il suo autore non deve influenzare la nostra rivista che è dichiaratamente di frontiera e cultura senza confini: i critici letterari possiamo benissimo ignorarli e l’ultima parola spetta sempre ai lettori, lettori che di certo non mancano ad Eugenio Corti. Speriamo che siano sempre più numerosi, e che qualcuno scriva severe critiche al suo lavoro di modo che il mio entusiasmo sia sottoposto ad un giusto contraddittorio: personalmente, mi piacerebbe sapere quanti cattolici si riconoscono nel cattolicesimo di Corti, nel suo cattolicesimo roccioso, duro come pietra.
(Andrea Quadranti, 12/11/00)