L’opera immortale dello scrittore brianzolo Eugenio Corti
Ripensare lo scrittore Eugenio Corti ed il suo contributo alla storia della letteratura italiana contemporanea, non solo costituisce un atto di giustizia verso lo scrittore scomparso ormai da tre anni (Eugenio Corti è morto infatti il 4 febbraio 2014 nella sua Brianza), ma allo stesso tempo deve diventare opera di studio serio ed attento, per sgomberare, altresì, la grande opera di questo scrittore da troppi luoghi comuni e da un isolamento ingiustificato, iniziato dopo che lo scrittore brianzolo aveva concentrato la sua attenzione sull’ideologia comunista, con l’opera “Processo e morte di Stalin”, opera che fu rappresentata a Roma nel 1962 dalla Compagnia stabile di Diego Fabbri.
Anche se l’esordio letterario di Eugenio Corti iniziò con la narrazione del meno noto capolavoro, “I più non ritornano”, edita da Garzanti, poi da Mursia ed infine da Ares, una sorta di Diario degli orrori della guerra in forma di “lettura angosciosa e straziante”, come ebbe a sottolineare Benedetto Croce, il nome dello scrittore brianzolo è soprattutto legato alla sua opera più conosciuta: “Il Cavallo Rosso”, tradotto in ben 35 lingue. Nella rivista Studi Cattolici, che ancora conservo nella mia biblioteca (n. 435/Maggio 1997) ho potuto ripercorrere una delle tappe fondamentali de “Il Cavallo Rosso”, ovvero la sua traduzione in lingua francese ad opera di Francoise Lantieri, con Prefazione e Postfazione di Francois Livi, docente alla Sorbona di Letteratura italiana.
Suggestivo nella prefazione del chiarissimo professore Livi, è l’accostamento tra Eugenio Corti e Alessandro Manzoni, almeno per quella scelta riservata dal Corti alla forma del romanzo storico nella narrazione degli eventi legati alla Seconda guerra mondiale ed alla quale il Corti partecipò col grado di sottotenente durante la campagna di Russia. E’ lo steso Eugenio Corti a confessarlo: “Mi sono trovato a dovermi costruire ex novo un intero impianto culturale. Dovevo parlare di eventi collegati al marxismo e al nazismo e non potevo fidarmi della cultura ufficiale, inquinata dalle ideologie e dai giochi di potere”.
Forse fu proprio questa scelta iniziale la felix culpa di Eugenio Corti. Fu questa fedeltà alla sua coscienza di uomo, di scrittore e soprattutto di cristiano a renderlo inviso alla salottiera e dogmatica cultura ufficiale. Coscienza che credo di poter identificare e qualificare nel vero e proprio significato etimologico del termine, ovvero cum scientia, che è lo stato d’animo profondo di colui che è alla ricerca della verità come debito supremo verso le future generazioni. Ed è per questo che il prof. Livi ha potuto scrivere ancora nella prefazione al romanzo di Corti che “Il Cavallo Rosso” è destinato a resistere all’usura del tempo.
L’opera di Eugenio Corti, che lo si voglia oppure no, è entrata a far pare del Patrimonio universale dell’umanità, per quel suo carattere oltremondano ed ultra temporale, impregnata com’è di metafisica dell’uomo e per quel disegno della Provvidenza che fa accostare “Il Cavallo Rosso” all’opera immortale di un altro grande scrittore italiano dell’800, ovvero quell’Alessandro Manzoni de “I promessi sposi”, per quell’epopea degli umili e degli offesi di ogni classe e di ogni appartenenza sociale ad opera delle due brutali ideologie – nazismo e comunismo – del secolo delle idee assassine appena trascorso, come ebbe a definirlo lo storico Robert Conquest.
Ma l’accostamento, però, non può lasciar fuggire un connotato fondamentale dell’opera del Corti, che sostanzialmente la differenzia da quella dello scrittore milanese. A rivelarci tale connotato è l’analisi puntuale di uno del maggiori filosofi tomisti del XX secolo, purtroppo scomparso: Padre Cornelio Fabro: “Il cavallo rosso è il romanzo di un’umanità cristiana, non prometeica: tutte le classi fanno la loro comparsa in questo poema spirituale: le umili e le elevate, operai ed imprenditori, soldati e ufficiali, e nella politica fascisti, nazisti e comunisti. (…) ma il trionfo del bene sul male non avviene qui in questa terra come ne I promessi sposi bensì nella luce eterna di Dio”.
(Giuseppe Bracchi, 24/02/17, La Città)