Così Eugenio Corti galoppa ancora sul “Cavallo rosso”
Il cavallo rosso, cui «fu dato potere di togliere la pace dalla terra», come è scritto nell’Apocalisse, ha devastato la vita di Eugenio Corti per un decennio. Lo ricorda ancora la moglie Vanda, che vedeva il marito randagio nel giardino, a dissotterrare i ricordi, affilare in testa la frase e misurare la rotondità dell’episodio, del capoverso. In quei momenti, di estasi e di crisi, di vita magra e benedetta, Corti, che aveva già scritto I più non ritornano e Processo e morte di Stalin, pensò di lasciare tutto, disarcionato dalla fatica.
«Vorrei dunque pregarti di dirmi, senza mezzi termini, e senza giri di parole consolatori, se tu mi vedi come scrittore, e se ritieni che come tale io possa servire a qualcosa», scrive il 19 giugno 1977, prostrato, al suo futuro editore, Cesare Cavalleri. Insieme avevano combattuto la battaglia perduta contro il divorzio. «Essere isolato è anche una forza per il tuo lavoro di scrittore», risponde l’amico. A quel tempo, Corti non era ancora uno «di quegli intellettuali scomodi la cui voce, spesso antipatica e discorde, rappresenta sempre e in ogni caso un salutare antidoto all’omologazione culturale, ai luoghi comuni e al pensiero dominante» (Giuseppe Langella) né «uno dei romanzieri di prim’ordine del secondo Novecento» (il cardinale Angelo Scola). In quegli anni è uno scrittore di 50 anni che sacrifica la vita per scrivere un romanzo manzoniano ma in realtà atipico, privo di precedenti diretti e di padri semmai, va avvicinato a Vita e destino di Vasilij Grossman apolide dall’avanguardia come dalla letteratura di massa. Nel 1983, infine, Corti pubblica per Ares quel tomo da 1200 e passa pagine, costantemente ristampato (siamo all’edizione numero 32), tradotto in tutte le lingue possibili, brandito come la bandiera del romanzo cattolico.
Il cavallo rosso non sbandiera alcuna ideologia, ma soltanto il genio del suo autore. «È ora – dice Cavalleri – di sfatare la leggenda del complotto. Bisogna prendere atto che un editore che si vede arrivare un manoscritto di 1280 pagine fa due conti e capisce che ne verrebbe un libro dal prezzo di copertina proibitivo. Il romanzo di Corti, per di più, era cattolico, ma anche se fosse stato politicamente corretto, avrebbe incontrato difficoltà commerciali insormontabili». Finita la polemica, i romanzi vanno letti per ciò che sono: testamenti di grandezza o attestati inutili, degni di oblio. Il cavallo rosso, piuttosto, si installa in quella stretta cerchia di romanzi in perpetua «lotta contro le evidenze», secondo la formula critica usata da Lev Sestov per Dostoevskij, romanzi in cui uno scrittore «apre senza riserve la sua anima ai supremi misteri dell’esistenza umana».
La storia letteraria, che è anche una straordinaria parabola editoriale in cui «Autore e editore diventavano tutt’uno» (ogni scrittore più che una casa editrice desidera una casa), si è trasfigurata in mito: in concomitanza con un paio di anniversari (il 4 febbraio sono i tre anni dalla morte di Corti, domani sono i 96 dalla nascita), Interlinea pubblica un tomo di studi su «Eugenio Corti scultore di parole», titolato Al cuore della realtà, curato da Elena Landoni (pagg. 144, euro 15) in cui lo scrittore è trattato per ciò che è, un classico. E se alcuni, in Italia, ancora fanno gli schifiltosi al cospetto del romanziere cattolico, beh, cosa importa, «se non dovesse essere accettato nel canone italiano, Il cavallo rosso e altri libri gli garantiranno un posto nel canone europeo» (François Livi). Tutto il resto è noia, un panorama sulle rovine della critica italica.
(Davide Brullo, 20/01/17, Il Giornale)