Eugenio Corti, 25 traduzioni, cancellato da noi
Riproponiamo un articolo del 2014, scritto due giorni dopo la morte di Eugenio Corti.
Eugenio Corti, lo scrittore brianzolo morto l’altro ieri, 93enne, nella sua casa di Besana (Mb), era inviso soprattutto a un certo pensiero catto-progressista. Per questo la sua opera principale, Il Cavallo rosso, definito dal Figaro Litteraire, «uno dei migliori romanzi europei degli ultimi 25 anni», era sconosciuto ai cattolici che andavano a messa la domenica.
E sarebbe stato ancor meno noto se, nel 1983, non le potenti Edizioni paoline, quelle di Famiglia cristiana, bensì le semisconosciute edizioni Ares, vicine all’Opus dei, non avessero accettato di pubblicarlo. L’opera, in forma in manoscritto, cercava invano un editore dal 1972. E a rompere l’isolamento era stata anche Comunione e liberazione, altro movimento cattolico, non ne avesse fatto subito una proposta di lettura ai propri aderenti, per i quali l’epopea di Nomana, la cittadina brianzola immaginaria da cui tutto si dipana, era diventata un must. E per questo Corti era diventato anche un ospite pressoché fisso del Meeting di Rimini, organizzato dallo stesso movimento cattolico.
L’ostracismo verso Corti, mai conclamato, ma sempre praticato nella più pretesca delle modalità, nasce dal suo impegno del 1974 nella campagna referendaria per abrogare il divorzio, introdotto quattro anni prima nelle legislazione italiana dalla legge Baslini-Fortuna.
Diviso fra l’industria tessile di famiglia e l’amore per le lettere, Corti assunse quell’incarico per la Lombardia su invito di Gabrio Lombardi, il giurista che organizzò la mobilitazione a livello nazionale. La campagna referendaria per il «sì» all’abrogazione trovava però alquanto tiepide le gerarchie vaticane: era ancora viva l’eco del Concilio vaticano II, e quella battaglia pareva a molti vescovi piuttosto di retroguardia. Una situazione che fu resa esplicita dallo strappo di intellettuali come Raniero La Valle, già direttore di Avvenire, che si schierò apertamente per la difesa della legge. Non solo le ancora potenti Associazioni cristiane lavoratori italiani-Acli fecero soffrire il pontefice, Paolo VI, che aveva una storia molto vicina alla loro e che le aveva sempre amate, pronunciandosi per una libertà di coscienza che suonò chiaramente come un disimpegno.
Corti invece si dedicò per mesi a questo lavoro, come aveva ricordato nel 2010 in un’intervista a piccola pubblicazione della Brianza, Il giornale della memoria. «Fu una cosa davvero penosa», aveva spiegato Corti, «oggi, molti di loro non ci sono più e mi spiace persino ricordarlo ma col padre Davide Maria Turoldo ebbi discussioni pubbliche molto accese. Per non dire della Acli, schierate per il no e dell’Azione cattolica, molto defilata, se si eccettua a Milano un gruppo di fucini che si erano formati con gli insegnamenti di padre Francesco Olgiati in Cattolica». In compenso, aveva proseguito lo scrittore, «fecero un lavoro splendido i giovani di Comunione e liberazione che, al contrario di quanto si è scritto, non lo fecero solo per obbedienza ai vescovi, quasi obtorto collo, ma per adesione convinta». Secondo Corti «se la Chiesa avesse insistito, probabilmente quei tre milioni di voti per il divorzio, decisivi per il risultato, non ci sarebbero stati. E invece il Papa, nei giorni del referendum era all’Estero, in visita apostolica».
Non è quindi un mistero se, oltre alle case editrici cattoliche che andavano per la maggiore, anche l’Università Cattolica, dove pure s’era laureato in Giurisprudenza di ritorno dalla guerra in Russia, l’avesse sempre ignorato. Non un una cattedra ma neppure un insegnamento a contratto.
Per l’ateneo fondato da Padre Agostino Gemelli, il cui nucleo dirigente, negli anni in cui Il Cavallo rosso veniva dato alle stampe, era legato a doppio filo all’Azione cattolica, il cattolicesimo intransigente di Corti era imbarazzante, così come certe pagine finali dell’opera, percorse da un anticomunismo niente affatto paludato. E pazienza se un gruppo di brianzoli, qualche anno fa, aveva dato persino vita a un comitato per attribuirgli il Nobel per la letteratura, pensando che ventincinque traduzioni, giapponese incluso, non fossero poca cosa.
(Bonifacio Borruso, 07/02/14, Italia Oggi)