La morte di Eugenio Corti e il silenzio (ingiusto) sulla sua opera
Il successo di uno scrittore e il silenzio sulla sua opera possono convivere per anni e lasciare a stagioni future possibili riscoperte e rivalutazioni da parte della critica. La morte, ieri, di Eugenio Corti, romanziere nato 93 anni fa in Brianza, a Besana, e tenacemente rimasto legato alla sua terra, porta a questa considerazione. Nel marzo del 2013 il Presidente Giorgio Napolitano gli conferì la “Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte”, nel 2010 fu presentata la candidatura di Corti al Nobel per la letteratura e nel 2000 ricevette il Premio internazionale “Al merito della cultura cattolica”. Tre atti che hanno riportato all’attenzione un romanziere molto tradotto e conosciuto all’estero.
L’esordio di Corti avviene nell’immediato secondo dopoguerra con “I più non ritornano” (Garzanti, 1947, edito poi nel 1993 da Mursia e dal 2013 passato ad Ares diventata la casa editrice di tutto il “corpus cortiano”). Il libro è uno spoglio diario di un mese di sacca nella ritirata di Russia scritto da un giovane sottotenente che ha come prima preoccupazione di “rispettare la verità, al punto da poter giurare sul contenuto di ogni singola frase”. Una cronaca cruda dove gli uomini mostrano gli aspetti più diversi del proprio essere fino alla brutalità selvaggia. Il filosofo Benedetto Croce, segnalando l’autore, scrive che è “una lettura angosciosa e straziante, alla quale non manca la consolazione del non infrequente lampeggiare della bontà e della nobiltà umana”. Corti è protagonista e testimone di una micro-storia, la sua con i suoi uomini, ma nello stesso tempo vive la grande storia, il conflitto che stravolge l’Europa. Questa coscienza del vissuto e la drammaticità dell’esistenza in cerca di ragioni, di spiegazioni e di un significato ultimo diventano la preoccupazione principale della narrativa di Corti: raccontare è un atto di memoria per consegnare a chi ascolta la grandezza e la miseria, la gioia e il dolore, l’eroismo e la vigliaccheria, la tradizione e il cambiamento. La narrazione acquista spessore quando si fa testimonianza. Per lo scrittore significa compiere un atto di verità, che contiene allo stesso tempo un valore profondamente religioso e un compito civile. L’esperienza della guerra spinge alla semplificazione estrema: l’uomo è combattuto tra bene e male. Nella battaglia per la sopravvivenza le domande interrogano le cose, i fatti, la realtà, gli istinti, le speranze mettendo a nudo chi siamo e interrogandoci sul significato ultimo del nostro vivere.
Corti romanziere indaga in questi territori e non lascia tranquilli. Potremmo dire che i suoi personaggi interpretano l’inquietudine, la personificano nel loro attraversamento quotidiano, invitando noi che li osserviamo a scoprire la medesima inquietudine nel nostro vissuto per trovare una risposta. Non a caso, l’autore parla e si misura con la Provvidenza e con un ineliminabile protagonista: il male.
Il male ha il volto del conflitto tra grandi potenze ne I più non ritornano, percorre Gli ultimi soldati del re, il romanzo della liberazione del nostro paese dall’esercito nazista che lo occupa; il male fa da filo conduttore ne Il cavallo rosso, il grande romanzo di più generazioni ed espressione del popolo della Brianza, una storia che incrocia la Brianza con la Lombardia, l’Italia, la Russia e la Germania. Scrive l’autore: “La guerra viene … è il prodotto dell’immoralità umana, né più, né meno”. Per Corti il male non è mai astratto e generico. E non basta dire soltanto “la guerra”. Il male porta sempre un nome specifico perché si muove attraverso individui, decisioni, comportamenti. E tutto risponde sempre a un’idea che sorregge e alimenta l’azione. Il Novecento, il secolo breve, vede all’opera due ideologie: il nazismo e il comunismo. La deriva, la degenerazione e l’annullamento della persona – umiliata, offesa, torturata, mandata a morte nei lager come nei gulag, trucidata sui fronti di combattimento di tutta Europa – appartengono a queste due realtà storiche che, a loro volta, assumono il volto di uomini che esercitano il potere. E insieme a loro troviamo il volto di tanti uomini che, con il loro assenso, costruiscono il consenso. Una responsabilità individuale e una collettiva.
Quando l’attenzione di Corti si concentra sull’ideologia comunista con Processo e morte di Stalin – tragedia messa in scena a Roma nel 1962 al Teatro della Cometa dalla Compagnia stabile di Diego Fabbri – riscuote un immediato ma breve successo; da quel momento scatta “un’operazione silenzio” sull’autore che non riuscirà più a scrollarsela di dosso anche se la sua opera maggiore Il cavallo rosso (1983) farà presa, verrà letta e ristampata ininterrottamente (è giunta alla 24esima edizione ed è stata tradotta anche in giapponese). Da molti critici Il cavallo rosso viene indicato come il grande romanzo cattolico del Novecento. François Livi, docente alla Sorbona ha scritto: “Il Cavallo rosso lancia una sfida alla cultura dominante e, contro ogni aspettativa, la vince… Romanzo della storia e sulla storia, è al tempo stesso un bellissimo romanzo d’amore, un mirabile affresco della vita in provincia (ma non certo un romanzo provinciale). Questo mondo brulicante di personaggi, di drammi, di grandiose scene collettive – si pensi in particolare alla disfatta delle truppe dell’Asse sul fronte russo – è immerso nella complessa luminosità del vero… Una miniera di pagine da antologia…”.
In Francia, dove la fama di Corti è più solida, a lui e alla sua opera è dedicato un capitolo nel volume Les romanciers e le catholicisme (Editions de Paris 2004) accanto a Huysmans, Bloy, Proust, Claudel, Bernanos e Boll. E’ l’unico italiano.
(Giovanni Santambrogio, 05/02/14, Il Sole 24 Ore)