Eugenio Corti, uno sconosciuto di successo
“Ho conosciuto un uomo di pacata, insopprimibile allegria” scrive la biografa di Eugenio Corti. “Non l’allegria dell’ottimismo vociante e senza ragione, ma il sereno e arguto buonumore dell’uomo che ha il gusto della vita. E non perché essa gli sia stata lieve. Nei suoi giorni più dolorosi Corti ha verificato che l’esistenza è sotto il segno del Creatore. Vale a dire che è per il bene”.
“Gli ho domandato una volta” dice Paola Scaglione nel suo I giorni di uno scrittore (Minchella, 1997) “quale fosse la cosa più bella che gli sia accaduta. Ha sgranato gli occhi azzurri, rispondendo: l’essere venuto al mondo, sicuramente. La prova è stata abbastanza dura, come per tutti, ma la conclusione dovrebbe essere veramente splendida: noi siamo stati creati per la felicità futura”.
Chi non sarà attratto da uno scrittore dalla maniera tanto semplice e decisa? Moltissimi sono infatti lettori di Corti, l’autore de Il cavallo rosso (Ares, 1993): un libro che si è aperto una strada nel cuore di chi l’ha letto e che continua a essere apprezzato qua e là nel mondo. Giunto alla tredicesima edizione italiana, tradotto in numerose lingue (spagnolo, francese, lituano, e presto inglese, giapponese, romeno), è ignorato solamente dai critici. Cerchiamo di capire perché.
Eugenio Corti è uno dei “ragazzi del ’21” chiamati alle armi quando l’Italia scese in guerra a fianco della Germania: sottufficiale d’artiglieria nelle truppe dell’Armir, partecipò alla tragica ritirata di Russia nell’inverno tra il 1942 e il 1943. Ventotto giorni di sbando, a piedi nella neve sui campi gelati presso il fiume Don, accerchiati dai russi, abbandonati dai tedeschi: Corti ricordò quelle vicende nel suo primo libro, I più non ritornano (1947). Ebbe successo, per via della sincera descrizione della guerra e della pietà che gli uomini possono esercitare persino in momenti tanto crudeli: disse allora Benedetto Croce che nel racconto c’era il “lampeggiare della bontà e della nobiltà umana”.
Ma negli anni a venire, quella stessa visione cristiana delle cose, il radicamento cattolico e il fiero anticomunismo gli costarono cari: la repubblica delle lettere lo boicottò, a partire dalla prima teatrale della sua tragedia Processo e morte di Stalin, che nell’aprile 1962 non andò oltre le serate di presentazione. Corti non è uomo che si scoraggi: dedicatosi da allora a una paziente ricostruzione degli errori della cultura lontana dalla religione, partecipò in prima fila alle battaglie referendarie contro il divorzio (1974) e contro l’aborto (1981). Condusse un nascosto ma tenace duello culturale con gli esponenti dell’ideologia che portò l’Italia agli anni di piombo. Infine, a coronamento di una fecondità umana e artistica, ecco uscire Il cavallo rosso, un romanzo di quasi milletrecento pagine che solo un editore coraggioso come l’Ares di Cesare Cavalleri osò pubblicare nel 1983, giusto in tempo per consegnare la prima copia nelle mani di Sua Santità Giovanni Paolo II in visita in Brianza. Da allora, chi legge Eugenio Corti incontra un uomo e un cristiano e viene attratto dal suo coraggio, dalla visione aperta a questa vita e alla vita eterna che ci attende dopo la morte. I personaggi della sua penna potremmo essere noi, i nostri cari e gli amici, le storie sono quelle dolci e amare di ogni giorno: inconfondibile è la luce che l’autore sa dare ai suoi racconti. Forse la chiave della propria opera l’ha data lui stesso, ricordando un fatto avvenuto nel ’43: mentre erano a Nettunia, gli ufficiali della sua batteria vennero convocati “a rapporto” dal comando tedesco. Soltanto lui, giovane sottotenente già provato dalla sofferenza in terra russa, intuiva il pericolo. I superiori andarono tuttavia alla convocazione: vennero arrestati dai tedeschi e deportati. Dopo qualche anno, incontrerà ancora uno di quei tenenti, il quale gli confesserà di non aver mai dimenticato la stretta al polso che il giovane commilitone gli aveva dato per dissuaderlo.
“Mi ero liberato dalla tua insistenza per infilarmi dritto dentro la prigione”, concludeva l’amico. Oggi, facciamo tesoro dell’esperienza di scrittori come Eugenio Corti e accettiamo volentieri le strette al nostro polso che ci richiama alla speranza. Una volta letti libri di tale genere, siamo nel medesimo stato d’animo di due personaggi de Il cavallo rosso, Alma e Michele, dei quali è scritto che “pareva loro ormai assurdo doversi separare, sebbene sia l’uno che l’altra sentissero anche, a tratti, bisogno di un po’ di solitudine per riflettere su ciò che stava loro accadendo, riandare le ore meravigliose passate insieme, rendersi conto che, obiettivamente, non si trattava di un sogno. E dire che sia l’uno che l’altra non avevano mai fatto in vita loro un sogno così bello come questa realtà”.
(Andrea Sciffo, 16/11/99, 7 giorni)