Eugenio Corti, dalla Russia al Pacifico, un “cantastorie” al servizio di Dio
Nelle parole di Eugenio Corti la vita e la scrittura abitano la medesima casa. E il lettore di ogni tempo e luogo scopre di farne parte. Non c’è storia umana che non trovi spazio e respiro nello sguardo e nella penna di Corti. Lui, del resto, si è sempre descritto come un cantastorie: la sua capacità di incantare narrando trova in Omero un maestro riconosciuto fin dai tempi del ginnasio.
Sulla dote innata si innesta la forza delle esperienze vissute, a partire dalla ritirata di Russia. Qui il giovane Eugenio, ufficiale di artiglieria, sente l’urgenza di cercare il senso ultimo dell’abisso di disumanità in cui si trova immerso, superando la ricerca delle cause politiche o delle strategie militari per giungere al cuore dell’uomo.
Per questo nel diario I più non ritornano (1947) lo spazio della pagina è tutto dei fatti: dei piedi congelati, della fame, del ripiegamento senza munizioni sotto il fuoco nemico, dei compagni rimasti mucchietti di carne e stracci ghiacciati ai bordi della pista, mentre la colonna sempre più lacera ed esigua dei soldati italiani si ritira.
Vive della realtà la potenza letteraria di un’opera dai tratti unici nella memorialistica sulla seconda guerra mondiale. Lo scarpinare senza sosta verso la salvezza si fa cammino alla scoperta di sé, al punto da vincolare la vita stessa alla vocazione: Eugenio – 21 anni – promette alla Madonna che, se fosse scampato all’inferno russo, avrebbe messo la propria penna a servizio del Regno di Dio.
La guerra di Liberazione dell’Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, segna una nuova tappa del suo percorso di formazione: pur repubblicano, sceglie di combattere nell’esercito regolare per restare fedele al proprio giuramento, alla propria identità di ufficiale. E di ufficiale italiano, che cammina e combatte per riprendersi la patria e il futuro. Il romanzo storico Gli ultimi soldati del re dà conto del senso di quell’esperienza: per l’autore-protagonista la patria da difendere non è un’astrazione, ma è l’eredità dei nostri padri, sono «i nostri famigliari e l’altra gente come noi; (…) è il nostro paese e la nostra casa». La patria è la possibilità di «vivere come intendiamo noi, e tirar su in pace i nostri figli: non come estranei, ma italiani e cristiani, con i sentimenti giusti».
Nella scrittura di Corti – a ben vedere – la via maestra è sempre quella che porta a casa, alla vecchia casa color giallo ocra che ti aspetta dietro ogni pagina del suo capolavoro, Il cavallo rosso, e alla casa del Padre su cui si chiude il romanzo. La casa vive negli occhi acuti e autentici di un uomo che entra a testa alta nel dramma della storia, perché vuole vedere, capire, raccontare il mondo, senza tacere quel barlume di verità e di bellezza che traluce da ogni istante.
E il lettore, accostandosi alle sue pagine, si ritrova compreso in quell’architettura totale che è condizione per abbracciare e amare ogni realtà. Non è un caso, perciò, se chi legge diffonde la notizia che, oltre i frammenti narrativi e la letteratura da supermercato, c’è uno scrittore maestro nel cantare la verità della vita. Che davvero vale la pena di conoscerlo.
Corti non ha mai ossequiato la critica commerciale: al centro del suo interesse di scrittore c’è – giova ricordarlo – il lettore di cui si fa compagno di strada anche nella scelta degli strumenti per comunicare. Nasce da questa attenzione la trilogia dei «racconti per immagini», testi pensati come sceneggiature da utilizzare per racconti sviluppati in forme nuove.
Con l’attenzione precoce del comunicatore attento, già nel 1970 diffonde nel mondo del cinema e della tv il dattiloscritto dell’Isola del paradiso, la cui revisione sarà edita nel 2000. Il testo riprende le vicende seguite all’ammutinamento del Bounty, con la tragica utopia di una vita felice e libera allo stato di natura. Corti va alla radice della questione: il male viene dal cuore dell’uomo e da questa evidenza non si può fuggire.
Con La terra dell’Indio (1998) lo scrittore si muove tra le suggestioni del romanzo e quelle del cinema: a chi tradurrà in immagini l’opera deve restare il sapore del mondo buono delle Riduzioni gesuitiche in Paraguay.
Ancor più figlio di questo tempo è Catone l’antico (2005) che, in duecento scene intessute di note registiche, rimanda alla molteplicità di livelli tipica della comunicazione moderna.
I racconti per immagini sono prove di scrittura, fissate nei libri perché il tempo non le cancelli, che cercano un lettore-autore disposto a completarle e a metterle in scena.
Del resto la varietà dell’ambientazione storica e delle forme narrative della produzione di Corti nasce dalla stessa intuizione che aveva mosso l’opera prima: il senso di tutto attraversa il particolare e lo trascende. La sua vita e la sua arte riecheggiano il canto dell’universale. È il destino dello scrittore autentico: chi legge le sue opere lo riconosce compagno d’armi e d’avventura. E sente che, insieme a lui, si può continuare il cammino.
(Paola Scaglione, 02/03/14, Tempi)