Il romanzo maggiore di Eugenio Corti possiede le due caratteristiche di una vera opera d’arte: primo, è il testo stesso nella sua bellezza che si pone a giudicare il lettore, dato che lo attira o lo allontana dai propri tesori (io, rileggendolo per quest’occasione, l’ho trovato travolgente). Secondo, pur essendo Il cavallo rosso una narrazione realistica di guerra e di storia militare, in esso prevalgono alcune scene di uomini che muoiono non perché vengano uccisi (cosa ovvia), ma perché “incontrano la propria morte”: fatto più unico che raro per noi che siamo costretti a vivere un’epoca in cui letteratura e cinema riproducono morbosamente l’omicidio e l’assassinio.
Tutta un’altra cosa con Corti, che è scrittore paragonabile a un Aleksandr Solženicyn o a un Vassilij Grossman; infatti, è impossibile non fremere di commozione e di dolore leggendo la sequenza che conduce alla morte del bersagliere Stefano Giovenzana sul fronte russo