Eugenio Corti e il suo Medioevo
Ecco un libro agile per conoscere Eugenio Corti (Il Medioevo e altri racconti, Milano, Ares, 2008, pp. 192, euro 12.00) per chi non l’avesse ancora letto (spaventato dalla mole del suo Il cavallo rosso, 1983, 1280 pagine), o per chi non si fosse accostato agli altri suoi capolavori: il diario di guerra I più non ritornano (1947), drammatico resoconto della ritirata di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale alla quale l’autore ha partecipato come sottotenente d’artiglieria, oppure il romanzo Gli ultimi soldati del re (1994) sulla guerra di liberazione dell’Italia. Senza dimenticare che Corti è autore anche di sceneggiature: La terra dell’Indio (1998), L’isola del paradiso (2000) e Catone l’antico (2005) e di saggi: Il fumo nel tempio (1995) e Processo e morte di Stalin (1999) comprendente anche l’omonima tragedia).
Con questo nuovo libro Corti si è dedicato al periodo storico da lui più amato, il Medioevo, per esprimere ai suoi lettori la tesi di cui è fermamente convinto: che la civiltà occidentale così come la conosciamo oggi si fonda, senza sconto alcuno, sul Medioevo. Questo periodo storico bollato dai più in maniera pressapochista come «oscurantista» e «barbaro» in realtà, soprattutto a partire dai secoli della Res Publica Christiana (vale a dire il Basso Medioevo) ha visto la massima fioritura culturale conosciuta dall’umanità, paragonabile soltanto — dice Corti — alla Grecia di Pericle. Scrive infatti: «Possiamo definire questo il tempo dell’umanesimo cristiano. Nel grande quadro della storia dell’Occidente esso fu l’unico comparabile… con la meravigliosa primavera ellenica dei secoli VI, V e IV a. C .»
L’autore argomenta quanto afferma con una breve introduzione che affronta l’origine della vita dell’uomo, poi la preistoria, l’età classica, fino ad arrivare al Medioevo che viene affrontato con il racconto della vita della beata Angelina da Montegiove (1377-1435), lontana antenata della moglie dello scrittore e conterranea della più nota beata Angela da Foligno (1208-1309). L’approccio narrativo alla vita della beata An-gelina (in mancanza di fonti storiche) serve all’autore per presentare con la sua penna il profondo umanesi-mo di cui era pervaso il Medioevo. Lo scrittore immagina un suo colloquio con la beata Angelina: «Il fatto è che a me, che son qui sulla terra, dà molto fastidio sentire di continuo due diverse categorie di miei contemporanei: i più ignoranti e i più colti in malafede, sparlare del Medioevo. Per cui io ora vorrei… fare l’unica cosa che sono capace di fare: scrivere del vostro tempo, intendo descrivere la realtà del vostro tempo secondo verità. Per farla conoscere e, se possibile, amare».
Corti usa vari registri, pur mantenendo uno stile nel complesso semplice e lineare: narrazione in prima persona, racconto di cronaca, racconto per immagini (che rendono il testo quasi cinematografico), racconto teatrale (si veda ad esempio la sequenza «A Montegiove»). Il suo procedere piano è uno dei meriti più riconosciuti allo scrittore brianzolo, non a caso soprannominato il «Tolstoj italiano del Novecento»: se la scrittura può sembrare fin troppo elementare, in verità è perché fa da supporto alla trasparenza e chiarezza delle idee che Corti vuole testimoniare. Corti è un testimone dell’umanesimo cristiano del Novecento contro l’ideologia nazista e quella comunista che hanno fatto rispettivamente venticinque e cento milioni di morti (come lui stesso afferma in più parti del libro). Questo tono piano, saldamente ancorato alle fonti storiche, è quello che lui usa con gli studenti universitari che vengono a trovarlo nella sua casa in Brianza.
È pensando anche a loro che ha scritto questo libro, lasciandolo come «testamento spirituale» (come ha fatto con uno dei suoi ultimi libri un altro grande scrittore francese: Jean Guitton). La seconda parte del volume racchiude una quindicina di testi brevi, scritti nell’arco di un quarantennio, che accanto agli indimenticabili ricordi di guerra propongono interventi sulla contestazione del ’68, istantanee di amici esemplari (don Carlo Gnocchi, in primis), un originalissimo ex-voto per san Michele Arcangelo e una suggestiva Apocalisse anno duemila. Questa seconda parte assume a volte il tono della fabula: ci sono aneddoti sulla vita da campo durante la guerra (Corti ha scritto che «La guerra è stata la maggiore esperienza della mia vita»), fatti accaduti, descrizioni della natura e degli animali che si sono accompagnati ai soldati italiani durante la guerra in Russia, personaggi stravaganti messi in scena (come Ardito, o Carlo B., o Il Popi).
Quel che risalta da tutti questi racconti è la loro classicità: la presenza, cioè, di un’autentica tensione morale che li permea e li caratterizza; come le favole classiche di Esopo, anche qui Corti imprime alla scrittura un forte insegnamento morale. A questo scopo sono funzionali i dialoghi: si veda l’ultimo bellissimo dialogo (quasi un commiato) tra lo scrittore (che, nella fantasia, si immagina giunto in Paradiso) e un amico vescovo polacco appena ritrovato. Alla domanda circa il perché del male nel mondo commesso da quei flagelli satanici che si sono rivelati il nazismo e il comunismo, il vescovo risponde: “Ricorda: una somma così iperbolica di sofferenze umane non va affatto perduta… è andata ad aggiungersi alla sofferenza, anch’essa terribile, sofferta dall’Uomo-Dio sulla croce, a riscatto degli infiniti peccati degli uomini”.
Quando la lettura finisce, ha il sapore di un commiato. Ma noi speriamo sia soltanto un arrivederci, fino alla prossima volta.
(Elisabetta Modena, 26/01/2009, RebeccaLibri)