Il cavallo rosso
E’ il capolavoro di Eugenio Corti. Un romanzo storico che legge la storia agli occhi delle verità eterne. Per questo, travalica tempo e spazio.
Trent’anni, un traguardo di maturità, una buona misura per un primo bilancio. Il cavallo rosso, il capolavoro di Eugenio Corti, non sfugge alla regola. Pubblicato nel maggio 1983, il romanzo ha raggiunto la ventisettesima edizione italiana ed è stato tradotto in otto lingue. Ancor più rilevante nel panorama editoriale contemporaneo, nel quale il successo di un libro è spesso una creazione commerciale dal respiro corto, è la modalità di diffusione dell’opera: la costante presenza in libreria del Cavallo rosso (uno dei rari long seller della narrativa novecentesca) è dovuta soprattutto alla promozione capillare di lettori appassionati che lo consigliano agli amici, in un passaparola capace di attraversare le generazioni e i continenti. Il segreto di questo consenso sta in una scrittura che documenta le travagliate vicende storiche del XX secolo e, insieme, rivela con delicatezza vigorosa e ineludibile la verità sull’uomo.
Un romanzo dal respiro universale È impossibile sintetizzare il valore e i contenuti di questo straordinario romanzo. A ragione un recensore dell’edizione francese ha scritto: «Il cavallo rosso non si riassume, si legge». E, nonostante la mole ragguardevole (1274 pagine), si legge tutto d’un fiato; addirittura molti lettori ne lamentano la fine e chiedono all’autore di continuare il racconto.
L’opera costituisce una testimonianza avvincente e unica della storia italiana – e non solo italiana – del Novecento. La narrazione si dipana tra la fine di maggio del 1940 e il maggio 1974; attraverso le vicende della famiglia Riva, industriali di origine popolare tratteggiati sul calco della famiglia dell’autore, e della comunità paesana di Nomana si delinea un affresco di respiro universale. Il punto di partenza e il luogo del ritorno è la Brianza, terra nella quale da sempre Corti vive, ma con la partecipazione dell’Italia alla Seconda Guerra mondiale e la chiamata alla leva dei giovani briantei il mondo intero entra nella scena del romanzo. I reduci e i loro compaesani vivono poi l’avventura quotidiana del dopoguerra, della ricostruzione, del boom economico e del mutamento epocale segnato dall’introduzione del divorzio nella nostra legislazione, secondo l’autore emblema di una grave crisi di civiltà.
Nel testo il portavoce dell’esperienza intellettuale e artistica di Eugenio Corti è lo scrittore Michele Tintori. Nella parte conclusiva del racconto, attraverso la mediazione di questo personaggio, che «non aveva pubblicato quasi più, seguitando però a scrivere “per dopo il diluvio”, come malinconicamente usava dire», l’autore esplicita il compito e la speranza affidati al proprio lavoro. Così come Corti, Michele «aveva messo mano a una grande opera narrativa che compendiasse l’esperienza della sua generazione “per quelli che, domani, dovranno pur accingersi a ricostruire”».
Dopo tre decenni, ancor più che i dati di vendita, la misura del successo dell’opera di Corti è la capacità sempre attuale di essere sostegno alla ricostruzione personale e sociale di cui la nostra epoca avverte più che mai l’urgenza. Il modello di riferimento consegnato alla memoria comune è la Brianza di anteguerra: un mondo costruito da secoli di civiltà cristiana e descritto con i tratti del realismo più rigoroso, una società umana che certo conosce il male, ma che è definita dal riferimento a Dio. Proprio il radicamento fisico e ideale nel mondo brianteo è il segreto grazie al quale Il cavallo rosso galoppa instancabile. Cantando tempi e luoghi definiti con precisione appassionata, l’autore rivela l’essenza di ogni uomo, cogliendo il nesso tra le vicende minime del quotidiano e il senso della storia e del mondo. La terra eternata da Corti è caratterizzata da una fede concreta, vissuta con naturale immediatezza, sostenuta dalla preghiera e dalla carità; è un luogo di umanità piena, nel quale si trovano le ragioni per vivere e per morire.
Il tratto costitutivo di questo modello di società è l’armonia tra l’uomo e l’ambiente naturale, tra il singolo e la comunità in cui vive. Di qui nasce la responsabilità verso i compaesani e, per estensione, verso la patria intera; di qui il senso del dovere che induce anche i più umili a fare la propria parte fino in fondo in ogni circostanza della vita. Dal contadino Stefano che, bersagliere al fronte russo, continua ad adempiere con dignità al proprio compito fino all’ultimo istante di vita al primogenito dei Riva, Ambrogio, che, tornato con il fisico e lo spirito a pezzi dalla ritirata di Russia, entra nell’azienda paterna e sull’esempio del padre si impegna in ogni modo per garantire il lavoro ai propri compaesani.
Analogamente Manno, studente di architettura appassionato di arte, si adopera nell’oratorio del paese per educare la mente e il cuore dei giovani alla bellezza. Come la persona reale a cui è ispirato, pur nella coscienza del disastro in cui si trova l’Italia dopo l’armistizio, anche da soldato si sente responsabile in prima persona verso la comunità nazionale: darà la propria vita combattendo a Montelungo, l’8 dicembre 1943, per aiutare la patria a uscire dalla tremenda situazione militare e istituzionale in cui si trova.
Verità e bellezza: l’universale nel particolare Nel Cavallo rosso la risposta personale di ciascuno al proprio compito è condizione essenziale di dignità del vivere e, insieme, via per costruire una società veramente umana: è emblematica l’esperienza del personaggio di Michele, come il suo autore scrittore per vocazione, convinto che la scrittura possa nascere solo dalla vita e che debba fondarsi sulla verità e sulla bellezza. Si tratta di due elementi dei quali i lettori colgono immediatamente il fascino e che costituiscono il principale motivo di gratitudine verso questo autore. «Anche se ci separa un oceano, come ci unisce la verità!», ha scritto commossa una lettrice dall’Uruguay, dando voce all’esperienza di tanti estimatori del romanzo.
Corti è scrittore impareggiabilmente capace di svelare all’uomo ciò che il suo cuore desidera, teme, spera. Attraverso le vicende narrate emerge l’essenza dell’uomo di ogni tempo e, insieme, un giudizio storico limpido e talora scomodo perché non si inchina alla mentalità dominante, ma sempre carico di misericordia. In netta controtendenza rispetto al dominio delle ideologie che spesso soffocano la narrativa del Novecento, nel Cavallo rosso storia e testimonianza di verità trovano uno spazio in cui incarnarsi. La forza di questa scrittura sta nello sguardo di un narratore autentico, che abbraccia e attraversa con lucida e umanissima intelligenza la realtà, indomabile nella volontà di dar voce alle scintille di umanità presenti anche quando la forza del male pare assoluta.
Quello di Corti – l’esperienza di una vita glielo conferma – è il realismo della trascendenza, la coscienza che l’unica possibilità di comprendere ogni situazione è considerarla nella prospettiva dell’eterno. In una prospettiva universale, vale a dire cattolica. il quadro in cui si muovono i suoi personaggi non è quello sia pur ampio, ma comunque limitato e condannato all’incompiutezza, del nostro mondo: con disarmante naturalezza Corti spiega come, per rendere la realtà, lo scrittore non possa prescindere dall’incarnazione di Dio, che ha rivoluzionato la storia umana. Nel Cavallo rosso risuona, voce di quell’ambizione aristotelica a lui tanto cara e sigillo dell’arte autentica, la capacità di svelare l’universale in ogni particolare. È questa la ragione per cui moltissimi lettori del romanzo di ogni lingua, età e cultura dichiarano commossi: «È il libro più bello che abbia mai letto!»
La bellezza, il respiro del vivere che non smette di affascinare Corti, è il tratto più evidente nella sua narrazione. Lo è nell’incantamento esercitato dalle figure femminili e nell’attrattiva dell’arte. L’immagine più esplicita della sua concezione artistica si manifesta nelle riflessioni di Michele, il suo “doppio” nel romanzo che un giorno, mentre passeggia nei dintorni del duomo di Milano, si ferma ad ammirare le statue sulle guglie: «Pensò ai maestri scalpellini che le avevano scolpite: uomini sconosciuti i quali, qui e altrove, avevano spesa la vita intera, soprattutto nel medio evo, a scolpire con pazienza, e spesso con arte mirabile, le statue delle cattedrali, anche quando sapevano che una volta issate al loro posto nessuno avrebbe potuto ammirarle: nessuno, tranne Dio. Lui dopo tutto non si era sempre considerato uno scalpellino? Sebbene scolpisse pagine anziché pietra».
Amareggiato per la censura di cui è fatto oggetto a causa della sua battaglia culturale contro ogni totalitarismo, giunge a temere per la diffusione della sua opera, ma non si ferma al lamento per l’ingiustizia del mondo o al rimpianto del passato: «Certo, come dice il Vangelo, non si accende una lampada per metterla sotto il moggio: tuttavia il suo dovere era di scrivere senza lasciarsi turbare, seguisse o no il successo». Lo scrittore, nella narrazione come nella realtà, si assume in prima persona il compito di partecipare alla ricostruzione di un mondo positivo. È la buona battaglia, come ama chiamarla Corti, che con la forza di una proposta vitale entra nell’esistenza di ogni lettore.
La corsa gagliarda del Cavallo rosso nasce certo dal suo indiscusso valore letterario, ma ha molto a che vedere anche con la tenace esortazione all’operatività: chi legge è chiamato a continuare nella propria vita la straordinaria avventura del romanzo. Per l’ultimo capitolo del libro, quello mai concluso, Corti ha affidato la penna agli uomini di buona volontà. La storia di questi primi trent’anni è quella di una narrazione proseguita attraverso gli innumerevoli lettori che continuano a raccogliere il testimone: a migliaia scrivono a Corti e vanno a trovarlo per ringraziarlo della sua lucidità di giudizio e della bellezza che risplende nella sua narrazione, per confermargli che la vita è proprio come lui la descrive, per testimoniare che fa sua opera li ha aiutati a vivere, a credere, a sperare e persino che è stata fondamentale nella loro conversione. C’è un mondo di lettori, molto spesso giovani, che accolgono la sfida di accingersi a ricostruire, ciascuno secondo la vocazione a cui è chiamato, con i piedi ben saldi a terra e lo sguardo rivolto in alto, come lo scrittore. E se non è questo il successo…
(Paola Scaglione, febbraio 2013, Il Timone)