Il tragico inganno chiamato libertà
La villa di Besana Brianza è rimasta la stessa delle pagine di Cavallo Rosso. Una casa in linea di inizio Novecento con un grande parco. Intorno i rondoni stridono rincorrendosi nel sole declinante. Sul retro la campagna sembra non aver fine. E le Grigne si intravedono appena nell’afa di luglio. Eugenio Corti è seduto in giardino. Pizzetto bianco, occhi azzurri sotto ciglia scure. Quasi ottanta anni portati con sicurezza, se non fosse per un leggero tremore. Unico segno di un’operazione appena subita. Per molti, soprattutto cattolici, è il più grande scrittore del dopoguerra. Il suo capolavoro, Il cavallo rosso, appunto, 1200 pagine fitte, è la risposta italiana a Guerra e Pace. Un libro tragico, intenso, capace di sfidare la storiografia dominante su argomenti come la Resistenza e la Liberazione. Da pochi giorni è uscito il suo ultimo lavoro, L’isola del paradiso (Ares edizioni, Milano, pagg. 322, lire 32.000) una sorta di sceneggiatura in cui narra la vicenda degli ammutinati del Bounty che cercarono di ricostruire su una piccola isola la società perfetta. Perché proprio il Bounty?
“Forse perché nella storia moderna è l’unico episodio che ha assunto subito, e conserva ancora, le caratteristiche del mito, in quanto strettamente legato alle grandi idee rivoluzionarie che stavano trasformando l’Europa. Da principio, l’attenzione si focalizzò sull’impresa marinara del capitano William Bligh che riusì a salvarsi percorrendo su una scialuppa 3.600 miglia in 41 giorni. In seguito si preferì l’utopia degli ammutinati che prima si diedero ai bagordi a Tahiti e poi inseguirono il mito del buon selvaggio e della libertà assoluta a Pitcairn. Ancora oggi, soprattutto nel mondo anglofono, il sogno di una vita libera e felice nei mari del Sud fa proseliti”.
L’ammutinamento avviene in una data chiave della storia occidentale, il 1789. La vicenda assume perciò un valore simbolico…
“Certo. Anche se mi sono attenuto scrupolosamente al materiale storico che è disponibile. Nel complesso, ciò che racconto è tristemente quello che accadde”.
Eppure il sapore della leggenda rimane. Gli ammutinati potevano essere a conoscenza delle idee rivoluzionarie?
“Mah… gli ufficiali avevano una buona cultura, non è detto che non avessero assorbito le idee poi della rivoluzione francese che già circolavano negli ambienti co1ti inglesi”.
Qual è la critica che si evince da questa vicenda nei confronti dei proclami rivoluzionari di libertà, uguaglianza, fraternità, e del mito del buon selvaggio di derivazione rousseana?
“Al di là delle divagazioni letterarie, rimane il fatto storico. I nove marinai, con sei indigeni e le ragazze più belle di Tahiti, si dedicarono alla libertà assoluta, senza freni. All’inizio ebbero la sensazione di aver ritrovato il Paradiso in terra. La vegetazione rigogliosa, il favore del clima, la bellezza dell’isola favorirono l’impressione di essere tornati alla mitica età dell’oro. In realtà, in pochi anni si scannarono a vicenda. Che cosa se ne deduce? In un’ottica cristiana, che esiste il peccato originale. L’uomo è corrotto: dovunque va, anche in capo al mondo, anche fuori da ogni ambito civile che possa influenzarlo, in un ambiente quanto mai favorevole, il male rispunta, è dentro di noi, bisogna continuamente combatterlo. Al di fuori di questa spiegazione religiosa, l’insegnamento è che la vita felice, nella libertà assoluta, è impossibile”.
Eppure più volte nel libro gli ammutinati fanno riferimento alla libertà assoluta…
“All’idea della libertà sfrenata, dell’uomo signore di se stesso, che costruisce la realtà in cui vive, contrappongo un’altra idea di libertà. La libertà e il poco di felicità terrena vanno conquistate giorno per giorno. Non sono uno stato normale, impedito da condizioni esterne. E non a caso, combattere contro le cause che le impedirebbero è stato uno dei grandi miti di questo secolo, consumatosi sui cadaveri di milioni di persone”.
Dal tentativo di ritornare all’età dell’oro discendono dunque le utopie radicali e totalitariste?
“Sì. Riportare l’uomo a una presunta felicità originaria comporta guai terribili. Per togliere il male dal mondo, nella pratica, l’unico modo è togliere l’uomo. L’esempio più grave è forse quello della Cambogia. Il comunismo in quel Paese è stato emblematico. In tre anni è stato massacrato un terzo della popolazione”.
Che cosa può dire delle grandi utopie novecentesche che avrebbero dovuto produrre il paradiso in terra?
“I flagelli sono stati due. Da un lato il nazismo e, più pericoloso perché universale, il comunismo. L’altra grande utopia, meno sfacciata ma ugualmente grave, è quella che potremmo definire radicale. Il sogno, di matrice americana, di una libertà straordinaria a cui l’uomo potrebbe arrivare solo togliendo gli impicci e le cose che la ostacolano. L’episodio del Bounty è perfetto per distruggere questo secondo mito”.
Perché ha optato per una sorta di sceneggiatura?
“Sono nato come scrittore e avrei amato che la cultura seguisse la strada dei libri. Invece oggi si preferiscono le immagini. Dunque bisogna combattere una battaglia civile anche in quel campo”.
Ci dovremmo aspettare una riduzione televisiva?
“Ho composto il libro anche con questo fine, ma la cultura dominante che mi ha sempre osteggiato non penso sia favorevole”.
Che cosa pensa della letteratura italiana contemporanea?
“Non sta molto bene. Fino al Mulino del Po di Bacchelli abbiamo seguito il corso della nostra tradizione come era venuta avanti nei secoli e come era stata fortemente recuperata da Manzoni. Dopo, la via illuministica ci ha portato al nichilismo. C’è un paradosso: gli scrittori odierni in genere scrivono meglio dei loro colleghi dell’Ottocento e del Settecento, ma non hanno più nulla da dire. Le loro opere sono delle “non opere”. E lo ammettono: durante i concorsi, per esempio lo Strega, il Campiello, non parliamo poi del Viareggio, nel momento in cui si devono tirare le conclusioni letterarie si dice sempre che non c’è nulla di buono. Sono anni, decenni. La letteratura italiana è come un grande albero la cui parte terminale è malata. Bisogna scendere lungo il tronco fino a trovare il tessuto sano: da Bacchelli indietro, D’Annunzio, e giù fino al Manzoni. Da lì bisogna ripartire”.
(Angelo Crespi, Il Giornale, 20/07/2000)
Quante pagine è lungo “L’isola del paradiso”?