Corti l’anti-Mission

Appena fuori dal giardino avito – la casa della sua infanzia e del padre imprenditore -, la fronte d’un palazzotto mostra i medaglioni col volto dei letterati brianzoli: Verri, Parini, Manzoni…, e anche Testori, aggiunto di bel nuovo. Ci sarà posto anche per lui (che del Giovanni scrittore e critico fu tra l’altro compagno di classe), a suo tempo? Perché non sembrano essere bastate 12 edizioni del diario di guerra I più non ritornano – una delle primissime epopee della ritirata di Russia – e 13 del monumentale romanzo storico Il cavallo rosso (150 mila copie vendute), più varie traduzioni dell’uno e dell’altro, né le edizioni de Gli ultimi soldati del Re, o la tragedia Processo e morte di Stalin (diffusa perfino nel samizdat russo) e infine qualche raccolta saggistica, per stabilire che Eugenio Corti sia un grande scrittore. Non in Italia, almeno. Nemo propheta, d’accordo. Ma forse il piglio battagliero di Corti (nemmeno al regista Ermanno Olmi ha perdonato un certo riferimento “comunista” nell’Albero degli zoccoli), il suo cattolicesimo così fuori luogo nella nostrana “repubblica delle lettere”, la predilezione per una letteratura popolare invece che gonfia delle solite citazioni “colte”, fors’anche il recriminare dei lettori affezionatissimi – che avrebbero voluto per lui un riconoscimento finalmente “ufficiale”.

Oggi, a 78 anni appena compiuti e con un nuovo cospicuo lavoro sulla bancarella del librai – La terra dell’indio (Edizioni Ares, pp. 488, lit. 32.000) -, trova soltanto in Francia un periodico “laico” come Le Figaro Magazine che gli dedica una grande foto per la seconda edizione di Le cheval rouge; e solo da due calvinisti di Losanna ottiene la recensione che forse neppure la critica cattolica gli aveva riservato finora. Ma dunque, con questo romanzo sulle reducciones gesuitiche del Paraguay, Eugenio Corti è finalmente diventato “comunista”…

Ah, la vecchia tradizione del “comunismo” delle reducciones… Ma è un fenomeno che va spiegato. E io, per questo libro sui guaranì, mi sono documentato bene, compiendo tra l’altro anche un’ispezione sul posto. Ci sono stati, sì, dei testi che hanno presentato le reducciones come un esperimento di comunismo cristiano. In realtà i gesuiti, nel tentativo di sottrarre gli indios all’inevitabile distruzione nel contatto con gli europei, hanno cercato di farli progredire nella civiltà, ma conservando tutto il possibile dei costumi indigeni; tra cui l’assenza di denaro. In Occidente molti hanno scambiato la cosa per comunismo.

Però lei non nasconde la simpatia per l’esperimento.
Il tentativo delle reducciones è stato un fenomeno meraviglioso, di cui oggi non ci si rende conto. Tra l’altro uno dei più belli, esteticamente, nella storia della Chiesa. In teoria gli spagnoli non volevano affatto sterminare gli indios, bensì salvarne l’anima e civilizzarli; ma poi in pratica il conflitto tra coloni e indios si rivelò inevitabile e questi ultimi naturalmente avevano la peggio. Perché quel massacro? Perché c’era l’impressione che gli indios fossero più animali che uomini. I guaranì praticavano il cannibalismo, la loro religione si esprimeva in ululati alla luna, la mancanza di igiene era terribile e soprattutto erano popolazioni inerti. Da cui l’idea fondante delle reducciones: la missione non doveva più avere come centro la sola chiesa, ma pure il collegio. Tutti gli indigeni dovevano andare a scuola, anche le bambine. E si ottenne dal re di Spagna che nessun bianco entrasse nelle riduzioni, eccetto due Padri (due soli su 5 mila persone).

15 anni fa ebbe successo un film sulle reducciones. Il suo libro rappresenta dunque l’anti-Mission?
Ho scoperto le riduzioni leggendo Voltaire: nel Candido ne parla con tanta acredine che ho subito pensato che doveva esserci del buono. Ho radunato allora molto materiale e avevo già finito la prima stesura quando uscì il film. Mission non esauriva tutta la storia delle reducciones (che durò oltre 150 anni) e inoltre falsava la realtà, dipingendo il superiore dei gesuiti come complice del potere laico contro i suoi stessi confratelli. Alla fine, comunque, è stato utile perché ha fatto conoscere al pubblico una grande epopea missionaria.

Però la pellicola ha tagliato le gambe a lei…
In effetti ho tralasciato il soggetto per alcuni anni. Anch’io volevo farne un film per la tv.

Ma come: lei ha sempre sostenuto di disprezzare la tv.
I libri incidono sempre meno: ormai la gente costruisce la sua cultura sulle immagini, e ancor più accadrà nel futuro. Per questo ho pensato ad alcune “rappresentazioni per immagini”. Una è già stesa e costituisce la risposta ai miti della cultura radicale, come la vita felice allo stato di natura, senza “peccato originale”: è la storia vera del Bounty. Il secondo è questo romanzo, costruito di soli dialoghi.

Da cui si ricava una duplice impressione: l’entusiasmo per un esperimento cristiano molto “laico”, in cui gli indios stessi dirigevano le loro colonie; ma anche il paternalismo dei gesuiti.
Noi giudichiamo sotto l’impressione della cultura dominante. In realtà, secondo me, quel paternalismo aveva aspetti anche molto positivi: l’autorità del superiore era quella del padre. Difatti, quando arrivarono in America le idee illuministe e si vollero subito “liberare” gli indios dalla tutela cattolica, ne derivò il loro sterminio.

Ecco: lei non rinuncia alle stoccatine. A parte la polemica contro i “nuovi filosofi” (e prima ancora contro Pombal e gli anticlericali), i suoi indios così cattolici non sono affatto dei pacifisti: si armano, fanno esercitazione tutte le domeniche, combattono i mercanti di schiavi…
Ma l’uomo è così: il peccato originale c’è e bisogna fargli fronte. La presenza di Caino è sempre possibile; non bisogna lasciare che uccida Abele. Perciò i gesuiti ottennero che i guaranì potessero avere armi da fuoco.

C’è polemica pure contro una certa idea moderna di missione, che non dovrebbe civilizzare all’europea.
Io sono per lasciare i popoli alla loro cultura, come successe ai guaranì. Ma poi avviene che certe teorie si risolvono in impacci ai missionari che lavorano sul campo”.

Lei indica l’economia di mercato come punto di arrivo per le reducciones. Ma oggi il nemico del cristianesimo non è proprio il capitalismo?
I gesuiti, al momento di lasciare le reducciones, capirono che per difendersi meglio i guaranì avrebbero dovuto introdurre l’economia di mercato. La giustizia distributiva in sé è bella, anche bellissima; ma se si fosse attuata non ci sarebbe stato progresso. Io non sono contro il capitalismo, una tendenza che fa parte addirittura della vita fisiologica; sono piuttosto contro la spietatezza dei proprietari dei mezzi di produzione: e lì bisogna intervenire con la legge.

Lei non cita mai Proust, vive in provincia, tra i suoi “maestri” si ferma a Manzoni: si ritiene un intellettuale?
Assolutamente no. Mi reputo un uomo di cultura. L’intellettuale nasce solo nel Settecento e la sua struttura mentale è demolitrice: gli intellettuali sono utopisti che prima distruggono le esistenze.

Le rimane un po’ il rovello di non essere riconosciuto dalla critica?
No. Sapevo già in partenza che sarebbe andata così. Non vedevo tutte le implicazioni che ne sarebbero venute, però la sostanza la intuivo. Il rimpianto è che, ogni tanto, potrei intervenire su problemi particolari della cultura o della società; ma non dispongo di alcuna tribuna.

E’ vero che scriverà delle fiabe?
Mi piacerebbe. Ho finito per occuparmi di tutte le epoche storiche eccetto quella che preferisco: il medioevo. Vorrei trattarne almeno con qualche favola.

(Roberto Beretta, Avvenire, 09/02/2000)