“Senza di te al mio fianco la bellezza che c’è nei miei – nei nostri – libri non ci sarebbe stata…”
Di un amore amiamo i lati d’ombra, la catastrofe nello sbaglio, l’artiglio di tenebra.
Il rapporto tra Vanda ed Eugenio Corti è sotto il carisma dell’illuminazione e della letteratura. Corti, indubbiamente, la vuole – la ha riconosciuta, come si riconosce, tra tutti, chi ha destino nella vita e la travolge. Scrive da Besana, la sera del 14 luglio 1947. “Io volevo semplicemente vederti… Io volevo vederti e stringere amicizia con te… Nella mia solitudine, quando ho visto te, mi è sembrato che la tua bellezza esteriore non fosse, come molte, soltanto esteriore, ma fosse lo specchio di quella dell’anima”.
Eugenio è più grande di Vanda di sei anni, è un uomo segnato dalla guerra, su cui ha appena scritto un libro, il suo primo, per Garzanti, I più non ritornano. “Quello che io sono tu lo potrai leggere in un libro che ho pubblicato in questi giorni e che trovi in ogni libreria”. Si avverte, sottile e dura, l’ambizione di Corti. “Te lo donerei io, se potessi rivederti”.
Di un amore è la diversità ad essere amata, l’anello nero, l’enigma che è brace. Eugenio e Vanda si sposano nel 1951, l’anno in cui esce lo sfortunato I poveri cristi (“A un tratto, convinto che fosse vicina a scoppiare la rivoluzione comunista, ho deciso di pubblicare il libro oberato da quelle riflessioni mal assorbite nel racconto, e anzi qua e là addirittura accatastate: ciò perché, in caso di rivoluzione, io intendevo combattere contro i comunisti – precisamente come avevo combattuto contro i nazisti – e non sapevo se stavolta sarei scampato”, ha detto Corti), poi ripreso e uscito, nel 1994, come Gli ultimi soldati del re. Nelle “Lettere a Vanda”, che raccolgono le lettere di Corti alla futura moglie, tra 1947 e 1951, pubblicate ora da Ares come “Voglio il tuo amore”, non si nega il dissidio.
Al contrario, Vanda – giovane di lunare bellezza, con le trecce lunghe, che discende dall’antica famiglia umbra dei Conti di Marsciano – investiga proprio qui: i cunei, le fratture, le mancanze. “Diversissimi anche nel carattere”, scrive lei, nell’Invito alla lettura, “lui impulsivo, forte, abituato al comando, attaccato al suo mondo che considera perfetto, sempre alla ricerca della bellezza, amante della natura e della poesia, abituato a evadere con la fantasia quando la realtà gli crea sofferenza. Anche lei ha un carattere forte, ma è concreta e razionale, timida e introversa. Scopriranno frequentandosi che una cosa li accomuna: le ferite che si portano dentro”. Vanda ne scrive come di una “bella e difficile storia d’amore”.
Le lettere – ed è quello che cerchiamo, perché amare muove, esige abbandono e rabbia – passano dalla tenerezza al verbo brusco, la gomitata addosso. “Io, essere umano, con i miei bisogni e le mie difficoltà, non esisto per te”, scrive Vanda, è il 25 gennaio 1950. La ragazza ha capito che il suo uomo ha l’ossessione moribonda della letteratura. “Preferisco la mia arte a te? Ma vada alla malora la mia arte porca, che non m’è neanche servita ad avere da te l’ammirazione che un qualsiasi campione di sport ha dalla sua donna. Come potrebbe servirmi quest’arte schifosa ad attrarre gli uomini sulla giusta strada, come era mio fine?”.
Vanda non sottrae l’amare a una analisi spietata, che ha candida ferocia. Il matrimonio lo descrive così: “Periodi di intensa, profonda, esaltante, di completa comprensione e dedizione reciproca, alternati a scontri e assenze da parte sua, pur essendo sempre costante la sua presenza in casa, e di irritazione e solitudine per me, difficile da sopportare. Fu in uno di questi momenti, forse il più penoso, che desiderai lasciarlo e scomparire dalla sua vita. Fu dopo l’uscita de Il cavallo rosso”.
Oggi Vanda ha superato i novant’anni: la sua lucidità che non indora i fatti è stupefacente. Ancora una volta, è la letteratura a unire e a minare l’unione. “Eugenio avrebbe voluto offrirmi su un piatto d’oro il suo successo, ma il successo clamoroso non ci fu. Il libro percorreva la sua strada nel silenzio, i lettori erano sì molti, ma nella completa indifferenza della stampa ufficiale e della critica”. Vanda vuole mollare. L’unione le pare infeconda, la delusione del marito inaccettabile. Siamo nel 1993. Un libro che ha predato una vita intera, gli anni a catena – e non ha il riscontro che merita. La frustrazione agisce, virile, nelle stanze. Corti, è il 9 dicembre, ha le parole adatte a saldare l’unione: “I nostri veri figli sono i nostri libri che non vengono solo da me, ma anche da te… senza di te al mio fianco la bellezza che c’è nei miei – nei nostri – libri, non ci sarebbe stata… quei libri – anche questo tu lo sai – sono riusciti in pieno, e hanno un valore straordinario. Non tutti sono in grado di capirlo oggi, dato che hanno contro la cultura [= la falsa cultura] dominante. Ma neppure di questo dobbiamo dispiacerci: anzi io prego sempre Dio che – mentre sono in vita – non mi conceda la soddisfazione del grande successo, perché a tale riguardo sono debole, e cederei con facilità alle tentazioni dell’orgoglio”.
Ci sono scrittori che sbranano dell’amore il volto, sono vampiri; altri s’incuneano, come serpi, dall’ombelico, e mangiano dentro, fino a lasciare senza fiato chi li ama, svuotato. Poi, i pochi, custodiscono la fiamma, facendo un casco delle proprie mani, e scrivono, raffinando la cera. (d.b.)
Per gentile concessione si pubblica una lettera di Eugenio Corti a Vanda raccolta in “Voglio il tuo amore. Lettere a Vanda 1947-1951” (Edizioni Ares, 2019).
Besana, 18 luglio 1950
Cara Vanda,
ecco che oggi dovrei lavorare al libro, e alacremente, anche per compensare domani perché, giorno del matrimonio d’Achille, sarò a Milano. Ma la tua lettera mi ha messo un tale entusiasmo in corpo che non soltanto continuo a leggerla e rileggerla, ma non posso fare a meno di mettermi a conversare con te: come si sta bene insieme a te!
Io ti benedico per le tue parole: “La donna è soprattutto bontà e amore” e tu lo sarai per me in modo completo. Tu me lo prometti in maniera solenne: guai a te, se verrai meno alla tua promessa. Dio, e la vita stessa, non ti perdonerebbero: pensa che tu non tratti con un giovincello scherzoso, ma con uno che la vita ha duramente provato, e ha riposto in te tutta la sua gioia, tutta la sua compiacenza e il suo amore. Ma io sono stupido a dirti queste cose che tu sai così bene. Te lo dico solo perché ero in stato ansioso, nelle ore che hanno preceduto l’arrivo della tua lettera, e pensavo perfino di venire a Poggio a tua insaputa per spiarti.
Pensa che meschinità: per spiarti. Sì, è la vecchia paura che tu debba incontrare qualcuno che ti piaccia più di me e possa abbandonarmi. È un’idea idiota, cretina, me ne vergogno, ma ogni tanto mi capita. Viene certo da questo: che ho visto spesso succedere il peggio, nelle cose della vita; ho visto grandi cose crollare. Ma la perdita del tuo amore non la sopporterei: te lo dico dolorosamente. Ma è stupido che te lo dica, dopo la tua lettera: “Tu lo sai che nessuno, mai, anche per un solo momento, potrebbe togliermi a te. Devi avere fiducia in me come io l’ho in te”.
Ho trascritte le tue parole perché mi piace trascriverle, ma anche perché tu le rilegga. Sei una ragazza di non molte parole (anche questo amo di te) e devi avere scritta una cosa simile con profonda adesione, con l’adesione di tutta te stessa. Certo che è così (ma scrivimele ancora cose simili, ti prego!), e io ti sento aderire tutta quanta a me. Che conforto pensare, sentire che mi ami: che non è un’idea, o una finzione letteraria, ma una realtà: il tuo amore, di fuori di me, viene a me come un raggio di sole, si muove intorno a me, mi fascia tutto. E io posso penetrarlo, raggiungerti, toccarti, penetrarti, creatura staccata da me che sei mia per volontà tua.
Ti accarezzo tutta: la senti la mia mano sulla fronte, nei capelli, sugli occhi, sulla bocca…? Ora bisogna che smetta, perché resterei sconvolto per molto tempo da questa tua troppa vicinanza, che per ora non c’è consentita. Siamo tutti in un gran daffare per Achille e Paola: sono entrambi molto contenti ed eccitati, malgrado Achille cerchi di non mostrarlo. Io ho domani l’incarico di fare da “supremo regolatore” della cerimonia e lo farò ferocemente. Anche al matrimonio di Giovanni, quando dicevo allo sciame dei parenti: “Mettetevi lì!, Spostatevi là” lo facevano in fretta, quasi fossero spaventati. Ciao amore mio, ciao Vanda mia.
Eugenio
(Davide Brullo, 18/07/19, Pangea)