Un sentimento alpino della vita
“Abbiamo l’istante, abbiamo la razza, che tuttora tiene”.
M. Eminescu
Fra le poche felicità dell’anno trascorso, confesso quella – autentica – del ricevimento da parte dell’autore italiano Eugenio Corti (nato e stabilitosi definitivamente nella piccola località Besana in Brianza) della sua opera monumentale Il cavallo rosso, apparso nel 1983 in prima edizione presso l’edizione Ares, Milano. Su mia preghiera, il magnanimo autore ha inviato anche l’edizione spagnola (El caballo rojo) pubblicata dalle edizioni Rialp, a Madrid, nel 1990. Ci rifaremo a questa: si tratta di 1167 pagine di un romanzo vasto, diviso in tre grandi parti – talmente vaste ed importanti che l’autore le chiama “volumi”: Il cavallo rosso, Il cavallo livido e Il frutto della vita, altrettanti titoli presi a prestito dall’Apocalisse.
Si tratta, nel vero senso della parola, di un romanzo apocalittico, centrato sulla partecipazione dell’Italia alla Seconda Guerra mondiale. Trascinata dal fascismo (da non confondere col nazismo) nella terribile conflagrazione che essa non ha né provocato né desiderato, l’Italia partecipa al fianco della Germania alle forze contrapposte dell’URSS, in Albania, Grecia e Nord Africa. Il fascismo italiano, senza dubbio, è colpevole, ma la stessa cosa non si può dire del popolo italiano, che lo ha sopportato, e ancor di più: lo ha sofferto.
Ora, proprio questo è il messaggio del libro: al servizio di un’ideologia corrotta ed anticristiana si è posta solo una minoranza, rapidamente spazzata via dalla scena del mondo; in cambio, la grande massa del popolo ha sofferto ed è stata crocifissa, conquistando così forse un sentimento “alpino” della vita, forgiato attraverso il dolore, la virilità, la rassegnazione, recuperando così i valori morali fondamentali. Non a caso sono guardati con palese simpatia i soldati delle forze alpine, affini ai nostri cacciatori di montagna, che, nondimeno, si ritrovano, nelle distese sconfinate della Russia, faccia a faccia con un’altra ideologia corrotta e anticristiana, il bolscevismo. L’ufficiale prigioniero, Michele Tintori, futuro scrittore, vivrà sulla propria pelle l’inferno concentrazionario sovietico, dinanzi al quale il mondo libero si inchinava farisaicamente col pretesto che non ne era a conoscenza, in un colpevole miscuglio di opportunismo, viltà e coscienza sovraccarica. Al termine degli anni di prigionia, lo scrittore tornerà in patria e denuncerà entrambe le ideologie criminali, non riuscendo sul momento più che ad attirarsi l’ostilità di tutti coloro che, fra gli anni ’60 e ’70 del nostro secolo sono stati avvelenati in Occidente dalla marea di sinistra.
Le 1167 pagine di questa saga italiana palpitano della vita vera di decine di uomini e donne coinvolte nel vortice apocalittico – personaggi complessi, scissi, spesso tragici. Colpiscono particolarmente i ritratti femminili abbozzati con rara squisitezza. Nel fragile loro immenso potere, l’autore italiano sa cogliere e comunicarci il mistero della vita, della durata a dispetto di qualsiasi forza, e costantemente alimentato dal brivido cattolico della fede. La donna, questo “capolavoro di Dio”…
Solitario e triste, con l’alpina melanconia di colui che molto ha visto e molto ha compreso, con la nobiltà montanara di colui che si è messo dalla parte delle forze del Bene, il romanziere Eugenio Corti si è ritirato in Brianza, da dove ci invia l’opera che abbiamo innanzi. Speriamo di vederla presto, anche in romeno.
(Mihai Cantuniari, inizio 1992)