Eugenio Corti, lettere dal fronte
L’esperienza da soldato, sul fronte russo, durante la Seconda guerra mondiale, è stata fondamentale per lo scrittore Eugenio Corti. Alla terribile ritirata di Russia, dal dicembre 1942 al gennaio 1943, aveva dedicato un libro di memorie, uscito nel 1947 e diventato subito un piccolo classico, I più non ritornano, ma aveva poi ripreso l’argomento, in un’ottica diversa e più ampia, attraverso la storia del personaggio di Ambrogio nel libro che avrebbe decretato la sua grandezza, Il cavallo rosso: un’opera ampia, quasi 1.300 pagine, scritta in 11 anni e pubblicata nel 1983.
Dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel febbraio dello scorso anno, nel suo archivio – che sarà inviato alla Biblioteca Ambrosiana – sono state ritrovate le lettere, minuziosamente custodite legate con uno spago e catalogate dallo stesso Corti, che aveva inviato durante la sua avventura sul fronte orientale. Ora quelle lettere, insieme a tante fotografie inedite che ricostruiscono i giorni di guerra in un modo diretto e diventano una sorta di «diario epistolare» che aiuta a comprendere le due opere maggiori di Corti, vengono pubblicate nel volume Io ritornerò, curato da Alessandro Rivali, che arriva in libreria in questi giorni edito da Ares (pp. 248, euro 14).
Come sottolinea il curatore si tratta di «materiali molto vari (lettere, telegrammi, cartoline e biglietti postali), ma in prevalenza missive ai genitori, che consentono di immergersi in pieno in quei mesi difficili e che lasciano trasparire il desiderio di un figlio di rassicurare i familiari in ansia per la sua sorte». Inoltre presentano immagini di guerra e situazioni che sono poi confluite nelle pagine dei suoi libri in un reinterpretazione letteraria: del resto uno dei pregi di questa edizione è anche quello di mettere a confronto il vissuto che emerge dal materiale epistolare con l’opera letteraria e – là dove vi sono corrispondenze in nota vengono riportate le citazioni o dal Cavallo rosso o da I più non ritornano.
Del resto ha ragione Alessandro Rivali a definire queste lettere quasi un «Ur-Cavallo rosso», indicando anche che «certamente Corti se ne è servito come fonte primaria per ricostruire la sua vicenda bellica». Dopo essersi iscritto alla facoltà di Giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano, nel febbraio 1941 il giovane Eugenio Corti si presentava volontario alla caserma del XXI Reggimento d’artiglieria a Piacenza per un primo corso di addestramento, seguito da altri sei mesi alla Scuola allievi ufficiali di Moncalieri, da cui uscirà sottotenente. Sarà lui stesso a chiedere di essere inviato sul fronte russo con un preciso intento, quello di conoscere da vicino «il tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti». È un’esperienza che ritiene per lui fondamentale e per questo prega Dio di poter conoscere da vicino quella realtà. Come ci raccontano queste lettere Corti parte per il fronte orientale nel giugno del 1942, sorretto dalla fede che gli è stata insegnata in famiglia e da una rocciosa speranza, la stessa che è stata scelta per il titolo di questo libro.
Lui è sicuro di tornare, perché sente il destino di Dio su di sé. Ai genitori, prima di partire scrive: «Io parto sereno, allegro anche. Ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia. Vorrei che anche voi riusciste a pensarla come me. E ricordatevi: tornerò. Da quanto vi ho detto prima è chiaro che devo tornare: lo sento». Il viaggio verso la Russia lo porta ad attraversare vari paesaggi, quello dell’Alta Croazia e quello della grande pianura ungherese, ma lo colpisce anche la Polonia, prima di arrivare in Ucraina, l’antica terra dei Cosacchi. Se i primi mesi, fino all’autunno 1942, sono segnati dalla normalità della vita militare con avanzate lunghe ma non difficili fino alla linea del Don, costruzioni di difese e esercitazioni, tanto che Corti riesce a dedicarsi anche alla lettura di libri di vario genere (dalle Bucoliche di Virgilio in latino ai Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome, fino a Moby Dick e a Guerra e pace), poi a dicembre la situazione precipita; i russi scatenano la loro offensiva e i soldati italiani devono marciare nella bufera fino alla sacca di Arbusov ribattezzata «Valle della Morte».
Ne escono infatti vivi in pochi, il 16 gennaio, con i reparti completamente distrutti. Corti, in questi momenti non solo difficili ma disperati, si affida alla forza della sua fede, che sempre emerge anche da queste lettere; come quando nell’ultima, prima della ritirata, saluta i suoi cari, scrivendo che fra poco deve fare la comunione di Natale: «C’è un solo Cappellano in tutto il Raggruppamento, perciò non può essere a nostra disposizione che di raro».
(Fulvio Panzeri, 07/07/15, Avvenire)