La profezia di Eugenio Corti: “Ritornerò”
Tutto iniziò nel solaio di un’antica filanda. Potrebbe iniziare così la storia editoriale delle lettere di Eugenio Corti dalla Russia, che svelano una pagina sconosciuta della sua vita (l’avanzata in terra straniera, secondo i ritmi di una guerra “strana”, apparentemente facile), e il cantiere più remoto di alcuni suoi capolavori (annotò con scrupolo ogni esperienza). Immergersi in questo materiale inedito è stata un’avventura splendida, ma soprattutto inaspettata. Nella primavera del 2013, come editor Ares, stavo preparando una nuova edizione de I più non ritornano, lo straordinario diario di guerra in cui Corti raccontò la sua ghiacciata anabasi e la fine del 35° Corpo d’armata italiano sul Don. Era un testo pionieristico uscito nel 1947 per Garzanti, prima delle pur splendide opere di Bedeschi e di Rigoni Stern.
Mentre sottoponevo a Eugenio le prove di copertina nella quiete della sua casa di Besana (testimone in pietra degli undici solitari anni di scrittura richiesti dal Cavallo rosso), egli volle fare una pausa mostrandomi una lettera ingiallita e sottilissima. Era una breve missiva indirizzata ai famigliari, redatta con la sua grafia forte e inconfondibile, perfettamente decifrabile. La lettera si era salvata dal disastro della ritirata. Descriveva una tenda nella steppa e la liturgia della vita al fronte. Incalzai subito il nostro autore chiedendogli se ci fossero altre testimonianze della stessa portata, se avesse scritto con regolarità prima dello sfaldamento del fronte. Sì, rispose inarcando in quel modo inconfondibile il sopracciglio… Qualche minuto dopo potevo avviarmi verso l’ultimo piano della grande casa con le chiavi del solaio. La corrispondenza dalla Russia doveva giacere, così mi spiegò, in quella stanza senza fine insieme agli altri ricordi di guerra. Tra i bauli impolverati si poteva rivedere come in un film la vita di Eugenio: le divise ben ripiegate, un caschetto da motociclista, lafittissima corrispondenza con i lettori, le lettere degli amici sugli altri fronti di guerra, la contabilità dell’azienda famigliare. Purtroppo, nonostante una lunga ispezione, le lettere non riemersero. Eugenio non riuscì a fornire ulteriori indicazioni. Peccato, perché lo stesso Eugenio conveniva che si trattava di materiale notevole…
Le nebbie si sono diradate grazie alla tenacia di Vanda, inseparabile sposa di Corti, che le ha ritrovate lo scorso dicembre riordinando l’archivio, in vista del trasferimento alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Erano raccolte in un pacchetto con l’intestazione: “Posta spedita dalla Russia da Eugenio – raccolta completa”.
Se la memoria aveva tradito Corti sull’ordine delle carte, non aveva fallito sulla loro importanza. Nel leggerle si tocca con mano la sete di verità di un ragazzo di 21 anni che partiva volontario per il fronte russo: voleva conoscere il vero volto dell’“esperimento comunista” e il tentativo di costruire un mondo senza Dio. Davvero impressionante è la lettera che scrive da Bologna il 9 giugno 1942, in procinto di partire. Ai suoi genitori disegnava l’identikit del suo cuore: «Vedo questa mia partenza per la guerra, come tutte le altre cose che capitano nella vita, inquadrata nei piani superiori della Provvidenza».
Il giovane sottotenente sapeva che Dio non l’avrebbe abbandonato nella nuova avventura, e il contenuto di questa missiva si dimostrerà addirittura profetico. Corti era certo che sarebbe tornato: «Io parto sereno, allegro anche: ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia. Vorrei che anche voi riusciste a pensarla come me. E ricordatevi: tornerò. Da quanto vi ho detto prima è chiaro che devo tornare: lo sento. Potrò magari essere ferito o esser dato disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò. Sento che Dio mi guida per una strada che Lui solo conosce, ma che è ancora lunga». In questa lunga lettera Corti ricordò ai genitori di essere “poeta” e certamente dimostrò di esserlo quando arricchiva i resoconti della sua avventura con preziose immagini. Per esempio, il 16 giugno la grande pianura che si prospettava davanti ai suoi occhi diventava come il mare: «Il paesaggio qui è estremamente uniforme; le case abbastanza grandi e moderne sono separate fra loro da larghi tratti fangosi, ma al di fuori c’è la magnifica pianura che in lontananza assume il colore del mare».
Oppure, il semplice ritmo della pioggia diventava il cuore di una bellissima lettera al padre: «Ti scrivo e mi par di cantare, in questa magnifica mattina di luglio. Umida è ancora la terra di pioggia; bagnati i prati verdissimi che senza confine si stendono all’orizzonte, costellati e profumati di altri fiori gialli, madidi i cespugli del bosco in cui siamo nascosti, questo verde bosco da cui si vedono squarci di cielo meravigliosamente azzurro. Ti scrivo e mi par di cantare. Ho pensato a te, a voi, a tutti voi ieri sera, mentre attendevo di addormentarmi. Pioveva. Tutti i soldati erano nelle tende o negli autocarri, silenziosi, e ci sarebbe stato un silenzio assoluto e immenso, malgrado il brontolio del tuono che s’udiva di tanto in tanto, se non fosse stato per il picchiettare continuo, dolce, monotono della pioggia sulle foglie degli alberi e sui copertoni degli autocarri sparsi tra il verde. L’ho ascoltata la pioggia, e mi pareva parlasse di cose lontane e di voi, soprattutto di voi» (lettera del 19 luglio).
Le annotazioni delle lettere contengono in nuce quelle che diventeranno ampie pagine del Cavallo rosso. Per una parzialissima campionatura si può confrontare la partenza della tradotta di Corti e l’analoga esperienza vissuta dal personaggio di Ambrogio, il primo contatto con i morti russi, la migrazione delle anatre e dei ragni trascinati dal vento, la descrizione della “terra dei cosacchi”, l’arrivo della corrispondenza al fronte, le incursioni degli aerei russi, la costruzioni dei rifugi invernali…Una delle lettere più intense (una delle ultime prima della ritirata) fu scritta per consolare i famigliari della sua forzata assenza in vista del Natale. Era il 4 dicembre. Pochi giorni dopo i russi attaccarono. Fu l’Apocalisse. Corti fu uno dei pochi che riuscirono a scampare dalla sacca di Arbusov. La sua Odissea durò 28 giorni. Era rimasto in vita per testimoniare, secondo verità e bellezza, sulle orme di Omero, come aveva imparato sui banchi di scuola.
(Alessandro Rivali, 07/07/15, Comunione e Liberazione)