Voli di angeli nel mondo degli uomini
Tutto ha inizio, con deliziosi quadri di vita campestre in un angolo della Brianza, la Nomanella, specchiantesi in un lembo di quel cielo lombardo che fa venire in mente la colorita pennellata manzoniana: “così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”. Scene incantevoli di pacifica vita agricola, popolate da gente tranquilla e laboriosa, che non tardano a rivelare una penna dotata di eccezionale arte descrittiva. Due contadini, padre e figlio, falciano il prato. I loro gesti più minuti hanno l’eloquenza della verità delle cose. Come, per parte sua, il cavallino sauro che, consumata avidamente la razione d’erba, si protende furbamente alle foglie del gelso, che gli regala la propria ombra. E sembra partecipare alle rare battute che i padroni si scambiano, sullo sfondo di un verde intenso, per commentare le suggestioni che passano da una bocca all’altra. Ci sarà o no la guerra? Siamo nel maggio del 1940, e il contadino giovane, Stefano, dall’alto del carro carico d’erba getta occhiate sulla strada se mai scorga da lontano arrivare il suo coetaneo Ambrogio per una fine anticipata dell’anno scolastico.
Da questo primo nucleo campagnolo, come da polla fresca di sorgente, sgorgano le 1.274 pagine del romanzo dl Eugenio Corti, Il cavallo rosso (Edizioni Ares, Milano), su una trama riccamente composita e ramificata, che dà l’idea del grande fiume, da cui ruscelli impetuosi si staccano e, magari dopo un percorso sotterraneo, tornano ad immettersi nella piena originaria. Dalla Nomanella le diramazioni raggiungono, naturalmente, Milano, la grande e industriosa metropoli, ma un po’ alla volta oltrepassano i confini d’Italia, man mano che il vortice della guerra ingoia Il lavoratore e lo studente; in Africa, Grecia, Albania, Russia; poi fanno ritorno all’operoso centro brianzolo, dove dalle voragini del conflitto non tutti sono tornati, per la lotta partigiana e la ricostruzione democratica, fino al 1974, anno del referendum sul divorzio.
La Nomanella. Terra dl “paolotti” come venivano chiamati i cattolici. Popolo semplice e schietto, dotato di una incommensurabile forza di volontà, di rapida intelligenza, di buon senso pratico. L’operaio che, con le proprie mani, è diventato industriale. Il piccolo proprietario terriero, che lavora i campi con l’amore del manzoniano “pio colono”. Le famiglie impiantate su robusto ceppo, che si intrecciano nella rete delle amicizie del figlioli. E i giovani. Spiccano figure caratteristiche, dalla personalità forte, ognuno con proprie vicende; volti limpidi, scanzonati ed ilari. Ambrogio detto “faccia-di-tutti-i-giorni”, Stefano, Manno, Michele, Luca, Pierello; i ventenni della vigilia della guerra. E delicate immagini femminili: Colomba; Giustina capace di imporporarsi fino alla radice dei capelli; Fanny, la più estroversa; Francesca dal volto allungato ed espressivo nonostante il contrasto tra la capigliatura castana e gli occhi azzurri; Alma detta statuina o gattino di marmo per la inespressività della persona, tutta perfetta linearità. Gioventù dal cuore pulito, che effonde all’esterno la bellezza interiore e guarda alla vita nella prospettiva di un conflitto prima paventato poi affrontato con la speranza della sua brevità, poi subìto e da alcuni vissuto atrocemente.
Michele, lo vive sulle prime linee del fronte russo. Audacemente, egli aveva cercato quell’impresa. Voleva rendersi conto della realtà del comunismo. Dal vivo l’Autore narra la terribile esperienza. Dal vivo: lo si capirebbe molto bene dalla precisione delle sue descrizioni, anche se egli non lo confessasse dallo spioncino di una parentesi, a pagina 406, del romanzo. La ritirata del Don, la caduta di Stalingrado, la vita in campi di prigionia sono pagine di alta drammaticità. Il realismo, in cui il Corti intinge la penna, raggiunge in alcuni di questi capitoli momenti vibratamente raccapriccianti. La crudezza di situazioni tragiche in una disperata carneficina umana è raccontata in ogni particolare, anche in ripetuti episodi di antropofagia, così brucianti che viene spontaneo domandarsi se non sia di troppo tanta insistenza. A nostro parere, la drammaticità della descrizione risulterebbe intatta, non perderebbe efficacia dal silenzio su molti dettagli, che, menzionati una volta, diventano intuibili ad un semplice cenno in situazioni analoghe.
La medesima osservazione mi è capitato di fare nel corso della lettura incontrando volgarità del linguaggio parlato.
A parte questi rilievi – che ci sembrano però di qualche importanza – anche dalle situazioni più drammatiche emerge il filo trascendente che unisce le vicende. Agli eroismi dell’immolazione della vita, corrispondono gli eroismi dello spirito. Quei giovani condannati alla condizione di carne da macello, hanno la perseveranza di pensare al cielo. Ai dolci ricordi degli affetti candidi lasciati lontano, intrecciano gli accenti delle Ave Maria. Essi sono persuasi che gli uomini, non Iddio, hanno voluto la guerra, e alcuni arrivano ad accorgersi che la tragica contingenza li ha maturati. Quadri patetici, soffusi di angoscia, aperti alla fiducia nella Provvidenza o alla fede nell’aldilà. Non dimenticherò mai la scarna figura dei cappellano morente di fame e di freddo, al quale altri morenti come lui in condizioni di abbrutimento tengono alzata la destra perché li conforti con una estrema assoluzione.
Pagine vere. Nel lungo susseguirsi di affreschi appaiono personaggi che hanno fatto storia. Il mondo cattolico milanese, per esempio, è rappresentato da esponenti del calibro di padre Gemelli, affettuosamente denominato “il Gemellone” nello spaccato di vita universitaria, tanto vivacemente fotografato dall’Autore, di Mario Apollonio, notissimo docente e critico letterario, di Don Carlo Gnocchi, eroico cappellano militare e angelo tutelare dei mutilatini. Appare la realtà culturale e quella politica, nella varietà delle loro dimensioni ed espressioni. E lo sforzo della proposta cattolica in un momento in cui un subdolo vento compromissorio si insinua nel costume e applica quanto meno il silenziatore alla cultura cattolica a vantaggio proprio di quel comunismo, il cui volto qui è ritratto nella tragica sua verità.
“Il cavallo rosso” spezza la congiura del silenzio astutamente creata attorno a tutto ciò che sa di marxismo, con un coraggio che non è merce da tutti i giorni. Così che i fari della pubblicità sono rimasti piuttosto spenti di fronte a questa opera, che è certamente una capolavoro destinato a durare, ed al suo solitario Autore. E’ un vero peccato, non per lui, ma per il pubblico – penso soprattutto a quello giovanile -, cui resta precluso un documento di raro talento artistico ed una testimonianza di oltre un trentennio di storia vissuta.
La storia, infatti, è la vera, o almeno la principale protagonista. La storia della seconda guerra mondiale e del difficile dopoguerra, che umili attori costruiscono partecipando ai drammi e alle speranze del mondo, nel tenace intento di lavorare per la verità. La storia in ciò che ha di fatalistico e di irrazionale, e sempre nella prospettiva del tessuto delle realtà invisibili, che costituiscono la fonte dl certezza e l’ispirazione ideale degli altri protagonisti. La storia vista senza lenti, così com’è, o interpretata nella luce religiosa, come lo svolgersi, direbbe Carlo Jemolo, “di un piano misterioso di Dio, il realizzarsi di una volontà superiore”. Si spiega che la narrazione, sempre così potente, non si tramuti in apologetica né in polemica. La apologetica e la polemica sono, nella realtà, la realtà alla quale le risorse narrative di Eugenio Corti danno corpo. “Dobbiamo stare bene attenti che la nostra lotta contro il male non si trasformi in persecuzione per qualcuno”; è una delle tante consegne che Michele Tintori, divenuto scrittore cattolico accreditato dalla critica più qualificata ma emarginato dalle imperanti élites filomarxiste, ha dato ad Alma, la “statuina” diventata sua moglie.
Ad Alma, a questa creatura singolare per la candida spiritualità della sua struttura, tocca di chiudere il romanzo, in un epilogo tragico di altissimo valore simbolico. La morte l’aspetta nella notte, in un banale incidente d’auto, mentre va a rilevare il marito rimasto in panne. Un povero drogato le taglia d’improvviso la strada. La vettura sbanda e precipita nelle acque scure del fiume. E’ l’Adda, che Almina, mentre lo costeggiava, era andata mentalmente celebrando col poetico “Addio” dei Promessi Sposi. La sensazione del freddo a contatto con la corrente è l’ultima vissuta quaggiù. Ma lassù, i due angeli custodi, il suo e quello di Michele, splendide creature a mezzo tra raggi di luce e soldati, le danno il benvenuto, “Sei qui, gattino di marmo”? E tante altre creature le si affollano attorno, vecchie conoscenze del suo piccolo mondo, anche talune cui non avrebbe pensato: tante e tante, “perché non uno di quelli per cui Cristo è morto si perde, non uno”. Sulla terra la storia continua, alla Nomanella e dappertutto, nel suo incessante altalenare, intersecato da voli d’angeli e da sprazzi di un cielo largo di cuore.
(Giulio Nicolini, 20/10/84, L’Osservatore Romano)