Le lettere di Corti dal fronte russo (1942-1943)
Egregiamente curato da Alessandro Rivali, che ha siglato una bella prefazione («Come Ulisse in terra straniera». Le lettere di Eugenio Corti dalla Russia), e da Silvia Stucchi che ha trascritto le lettere, il volume postumo di Eugenio Corti (1921-2014), «Io ritornerò ». Lettere dalla Russia 1942-1943 (Ares, Milano 2015), aggiunge un tassello di primaria importanza all’opera dello scrittore lombardo. Per una corretta interpretazione di queste lettere, occorre ricordare che il futuro scrittore, chiamato alle armi nel 1941, chiese di essere inviato sul fronte russo, giacché intendeva rendersi conto di persona, seppur nelle circostanze eccezionali della guerra, dei risultati del tentativo comunista di edificare un mondo nuovo e una nuova società.
Nel 1942 le divisioni inviate in Russia da Mussolini per appoggiare l’azione della Germania formavano tre corpi d’armata : il Trentacinquesimo, al quale fu assegnato il sottotenente di artiglieria Eugenio Corti; il Secondo e il Corpo d’armata di élite delle divisioni alpine. Durante l’estate e l’autunno un’avanzata spettacolare conduce i Tedeschi e i loro alleati dal Donetz al Don. Dopo alcuni mesi di apparente stasi, il 16 dicembre 1942 i Russi scatenano una gigantesca offensiva che travolgerà l’insieme del fronte sud, che si estende su più di mille chilometri. Il 19 dicembre il Comando tedesco dà l’ordine di abbandonare il Don. Il Trentacinquesimo corpo d’armata – le due divisioni Pasubio e Torino e la 298a divisione tedesca – devono ripiegare: i Russi, che hanno sfondato in più luoghi il fronte, stanno rinchiudendo il Corpo d’armata in una enorme sacca.
Sprovviste di carburante, costrette ad abbandonare il materiale e l’armamento pesante, le truppe italiane, male equipaggiate, si ritirano. L’anabasi durerà fino al 17 gennaio 1943, quando saranno raggiunte le linee amiche. Il freddo – talora a -40° – gli incessanti attacchi delle truppe sovietiche e dei partigiani, fanno sì che dei 30.000 soldati italiani de Trentacinquesimo corpo d’armata, soltanto 4.000 riescano a uscire dalla sacca: 3.000 di loro sono feriti o congelati; soltanto 1.000 possono essere considerati, nonostante lo sfinimento fisico e psichico, in «condizioni normali». La ritirata di Russia non segna per Corti un addio alle armi: dopo il crollo del regime fascista e l’armistizio dell’8 settembre 1943, il giovane ufficiale attraverserà il fronte per raggiungere nel Sud le unità dell’esercito regolare che si stanno riorganizzando: combatterà a fianco degli alleati per la liberazione dell’Italia, amareggiato di essere ora l’alleato indiretto dei sovietici, quanto, prima, di essere l’alleato della Germania nazista. Quest’esperienza nutrirà il romanzo autobiografico Gli ultimi soldati del re (1994).
Le lettere di Corti raccolte in «Io ritornerò » sono gli incunabili di I più non ritornano (1947), il diario della ritirata di Russia, e di vari episodi del grande romanzo storico Il cavallo rosso (1983) il capolavoro dell’autore, e questo è già uno dei motivi del loro interesse. «Io ritornerò » consta di cento pezzi – lettere, cartoline, telegrammi – rinvenuti da Vanda Corti, la vedova dello scrittore. Le lettere sono corredate di note che indicano gli sviluppi narrativi, nei futuri libri, di talune scene od osservazioni del giovane ufficiale. Complemento naturale dei testi sono le fotografie scattate da Corti e sviluppate in Italia, rispetto alle quali alcuni passi delle lettere fungono da didascalia. Il primo scritto è una cartolina inviata da Bologna il 6 giugno 1942, dove Corti attende il trasferimento sul fronte russo. L’ultimo messaggio è la copia di un telegramma inviato il 29 gennaio 1943 da Leopoli, per rassicurare la famiglia sulle sue condizioni.
Lettere private, dunque: il giovane sottotenente non intende fare letteratura, anche se varie pagine annunciano il futuro narratore. Per cogliere il significato di queste lettere occorre tener conto di due tipi di censure. Innanzitutto la censura militare (in alcune lettere i nomi di località e di paesi sono cancellati): evidentemente il giovane sottotenente non può parlare, se non in modo generico e sempre positivo, di operazioni militari. Quanto al comportamento inumano dei Tedeschi nei confronti delle popolazioni civili, bisogna essere più che prudenti. Più tardi Corti racconterà (vedi Paola Scaglione, Parole scolpite. I giorni e l’opera di Eugenio Corti, Ares, Milano 2002) che una sua lettera, nella quale bollava a fuoco il comportamento dei nazisti, era stata intercettata dalla censura militare: era stato salvato da un superiore, che garantiva i suoi sentimenti antibolscevichi. La censura “politica” genera una prima forma di autocensura, alla quale si aggiunge una censura “familiare” non meno forte: scrivendo alla famiglia, Eugenio vuole rassicurare i suoi: ribadisce quindi il messaggio fondamentale – non corre nessun pericolo –, declinandolo in vari modi a seconda del destinatario: il padre, la madre, i fratelli e le sorelle, le lettere collettive.
In altri termini, «Io ritornerò » è un libro autonomo, ma è il confronto con altre opere di Corti a mettere in luce i silenzi e le reticenze di queste lettere, il futuro sviluppo narrativo di alcuni passi. Nessuna traccia, in queste lettere ai familiari, di retorica militare o fascista. Domina viceversa un forte e severo senso del dovere e un’attenzione costante alle popolazioni civili, che costituisce, per le ragioni stesse della presenza di Corti sul fronte russo, la particolare prospettiva di questi scritti.
La Storia stessa si incarica di dividere queste lettere in tre sezioni: il viaggio per raggiungere il fronte, dal 6 al 16 giugno 1942 (quindici lettere); la vita sul fronte, di gran lunga la parte più estesa (settantanove lettere); l’offensiva sovietica, o meglio il silenzio (le sei ultime lettere).
Nella prima sezione particolare rilievo assumono le ragioni della partenza per il fronte russo, la scoperta di nuovi paesaggi e i primi contatti con le popolazioni civili. La seconda lettera, la più lunga del libro, è un vero e proprio manifesto dell’etica del giovane ufficiale. Andrebbe citata per intero, ma mi limiterò a qualche passo (l’indicazione delle pagine rinvia alla già citata edizione).
Bologna 9 giugno 1942 – in attesa di partire
Mamma e papà carissimi,
questa mia vi giungerà che io sarò in viaggio per il Fronte russo. Ve la scrivo perché voglio che sappiate con quali sentimenti io parto.
Vedo questa mia partenza per la guerra, come tutte le altre cose che capitano nella vita, inquadrata nei piani superiori della Provvidenza.
Anzitutto per quanto riguarda me nelle mie relazioni con tutta l’Umanità: non è giusto, vi pare, che mentre tutti i giovani della mia età, di quasi tutte le nazioni, sono coinvolti in questa grande prova, io ne rimanga fuori.
Ma c’è di più: domani a questa guerra, come a tutte le guerre, seguiranno rivolgimenti e contrasti. Io non vorrò restarmene neghittosamente fuori: parteciperò anch’io in favore della Religione, della Famiglia, dello Spirito, di tutte quelle cose insomma in cui voi m’avete educato e nelle quali fermamente credo. Quale maggiore peso avrà allora la mia personalità, se potrò dire che al momento del pericolo ero anch’io al mio posto.
[…]
Credo fermamente che allorché la Provvidenza ci ha mandato questa prova, aveva soprattutto in vista questo grande fine.
In secondo luogo per quanto riguarda me nelle mie relazioni con la Famiglia: siamo tutti religiosi, e non ignoriamo che questa vita non è se non una continua prova. I periodi di pace sono per prepararci ai successivi periodi di prova. Se si vedesse la vita in altro modo, la si vedrebbe paganamente.
Così chiudo queste mie parole. Io parto sereno, allegro anche: ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia. Vorrei che anche voi riusciste a pensarla come me.
E ricordatevi: tornerò. Da quanto vi ho detto prima è chiaro che devo tornare: lo sento. Potrò magari essere ferito o esser dato disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò (pp. 28-31).
Scoperti con emozione, i paesaggi del Friuli, della Croazia, della Slovenia, dell’Ungheria, della Slovacchia, della Polonia, dell’Ucraina si succedono nelle lettere, secondo il percorso della tradotta. Nella lettera scritta il 12 giugno da Przenmyls, in Polonia, la vegetazione, ricoprendo le tracce delle recenti battaglie tra Tedeschi e Russi, dà quasi un’illusione di pace. Ma in questa stessa lettera, agisce l’autocensura “politica” della quale dicevo: «Stamane siamo stati (3 di noi e 4 di Moncalieri) a visitare una chiesa (tutta piena di fiori) e abbiamo fatto una visita di dovere al Vescovo che parlava molto bene l’italiano» (p. 48). Ne Gli ultimi soldati del re troviamo le ragioni di questa «visita di dovere». Osservando la ferocia e con la quali i Tedeschi trattano gli ebrei e i civili polacchi e saccheggiano il paese, Corti e i suoi amici scoprono il vero volto del nazismo. Dà ciò nasce il desiderio di dissociarsi dagli invasori bolscevichi e nazisti, di comunicare a un’autorità polacca, nella fattispecie il vescovo della città, la loro solidarietà di Italiani cattolici. Un laconico telegramma «Giunto felicemente. Sto bene. Eugenio», in data del 18 giugno 1942, chiude questa prima parte.
Le lettere della seconda parte descrivono fondamentalmente la vita quotidiana sul fronte. Dotata di cannoni a lunga gittata, la batteria alla quale è stato assegnato Eugenio Corti, spesso nascosta in un bosco, si trova a qualche chilometro dalle prime linee. Prima di assestarsi sul Don, il fronte è avanzato per due volte: a metà luglio e poi a novembre. Ma ormai ci si prepara a combattere non tanto i Russi quanto il generale inverno.
La guerra sembra lontana: soltanto l’assenza degli uomini nelle case ricorda la sua prossimità, o i prigionieri, uomini che in vita loro sembrano aver soltanto conosciuto violenze e maltrattamenti. I duelli di artiglieria sono rari, gli attacchi notturni dell’aviazione russa sono timidi e sporadici. Si veda l’ottimismo programmatico della lettera scritta al padre il 26 giugno 1942:
Una delle poche cosa che mi fa capire di essere in guerra è la condizione in cui scrivo. Spariamo infatti di raro: ogni tanto i Russi bombardano qualche paesino sotto i nostri e allora noi spariamo su qualche paesino sotto ai loro. Nient’altro. Sembrerebbe di essere al campo in Italia, se non fosse per la fila di bambini affamati che compaiono agli accampamenti all’ora della distribuzione del rancio.
Quanto agli aerei, i nostri tengono completamente il cielo. I loro compaiono rarissimamente di giorno, a allora volano altissimi e scappano appena arrivano i nostri; di notte, invece, buttano qualche bomba a caso vicino ai paesi senza mai nessun risultato. Per la mia batteria che è abbastanza lontana da qualsiasi paese, non esiste la benché minima apparenza di pericolo (pp. 72-73).
Domina un sentimento di monotona attesa, trasmesso anche dagli ufficiali che si avvicendano sul fronte russo. Un’atmosfera che fa pensare al coevo Deserto dei Tartari (1940) di Buzzati. Alcune lettere che chiamerei “pedagogiche” spiegano la velocità alla quale si muovono i convogli, l’organizzazione della batteria, le postazioni dei cannoni e delle mitragliatrici.
La caccia, lunghe cavalcate nella steppa con un cavallo cosacco, la mutevolezza del paesaggio secondo le stagioni, la malinconia sottile dell’autunno sono descritte con un’efficacia che lascia intravedere la cifra stilistica del futuro scrittore. Ma sono soprattutto i civili a interessare Eugenio che desidera apprendere da una fonte diretta le loro condizioni di vita nel regime sovietico. Alcuni dei bambini che vengono a chiedere cibo rivivranno in Tre bambini, un racconto di argomento russo inserito in Il Medioevo e altri racconti (Ares, Milano 2008). La lettera del 31 luglio racconta l’incontro in un villaggio con dei contadini: uomini attaccati alla religione, nonostante le persecuzioni del regime sovietico, che con tenacia riescono, nonostante la scarsezza di mezzi, a costruirsi una casetta.
La morte appare a distanza, come traccia dei combattimenti sostenuti dalla fanteria. La lettera del 22 luglio, sorprendentemente indirizzata alle sorelle, parla dei primi morti russi visti da vicino: sono i cadaveri di soldati che hanno fatto il loro dovere. Ma il fetore è insopportabile: Corti li farà seppellire da alcuni soldati italiani. Di morti italiani non si parla, se non di soldati che combattevano in altre zone del fronte. Viceversa Eugenio parla con inquietudine dei bombardamenti alleati su Milano, nel novembre del 1942.
La lettera del 26 novembre comunica i nuovi compiti assegnati a Corti come osservatore presso il Comando del 61° gruppo di artiglieria. Eugenio lascia quindi la batteria e può godere di maggiore libertà di movimento. Il messaggio di ottimismo e di serenità è ripetuto ancora una volta con convinzione: «Se prima il pericolo era quasi nullo, adesso è completamente inesistente. D’ora in poi quindi sarebbe più che mai fuori di luogo ogni vostra preoccupazione» (p. 206). Il 13 dicembre, appena tre giorni prima dell’offensiva sovietica, Corti insiste: «Del resto i Russi sono, davanti a noi, del tutto tranquilli, e si prevede che lo saranno sempre da quanto si sente ai disertori che continuamente passano da noi. Niente preoccupazioni, dunque» (p. 223). Incoscienza, cecità? Anche in questo caso opera la duplice autocensura, “politica” e “familiare”. Le prime pagine di I più non ritornano attestano infatti che prigionieri e disertori russi avevano annunciato l’imminenza dell’offensiva, confermata dai tentativi russi di stabilire teste di ponte sul Don, senza badare alle perdite umane. Il comando italiano era perfettamente consapevole della criticità della situazione, data l’estensione del fronte e la pressoché assenza di riserve, bruciate dalla battaglia di Stalingrado.
Un silenzio assordante, dal 13 dicembre 1942 al 21 gennaio 1943, domina la terza parte del libro.Il laconico telegramma spedito da Richowo il 21 gennaio («Sto sempre bene. Sono al sicuro nel giorno del mio compleanno. Vi penso e vi bacio tanto», p. 225) esime da qualsiasi commento. Lo stesso giorno Eugenio conferma in una cartolina postale lo stesso messaggio. C’è semmai da ricopiare la frase di propaganda stampata su questa cartolina delle Forze Armate: «Oggi, il Tripartito, nella pienezza dei suoi mezzi morali e materiali, è uno strumento poderoso per la guerra e il garante sicuro della vittoria. Mussolini» (p. 228). Non dissimile l’ultimo messaggio, inviato otto giorni dopo da Leopoli: «Sto benissimo e sono fuori qualsiasi pericolo / Vi ricordo sempre e spero rivedervi presto / Tanti baci ». Una conferma di quel «tornerò» della lettera scritta a Bologna otto mesi prima. Sono messaggi che giungono, si direbbe, da un altro mondo, del quale è impossibile dire: sarà il drammatico diario I più non ritornano a parlare della ritirata, della “stagione in inferno” di Eugenio Corti.
(François Livi, maggio 2016, LineaTempo)