Intervista ad Alessandro Rivali sulle lettere di Eugenio Corti
Segnaliamo che sul sito di Pagina Tre, a questo indirizzo, è possibile ascoltare l’audio dell’intervista.
Eugenio Corti, notissimo per il suo capolavoro Il cavallo rosso, fu il primo, cronologicamente, a raccontare la terribile esperienza della ritirata di Russia (I più non ritornano apparve per Garzanti nel 1947). Era allora un giovane ufficiale (ventunenne) della 2° Batteria del 61° Gruppo di artiglieria da campagna, in appoggio al 2° Battaglione della “Pasubio” (che, insieme alla “Torino” e alla 298° tedesca componevano il 35° Corpo d’Armata).
Per un certo tempo, in assenza di altri ufficiali, è di fatto comandante della batteria, e si rivela ottimo capo e formatore di uomini, da cui è molto amato e stimato.
A fine novembre 1942 passa al Comando di Gruppo, come capo pattuglia OC. Così spiega, a p. 305 de I più non ritornano: «Il pattugliere era l’elemento d’unione tra un qualsiasi comando di fanteria e la propria unità d’artiglieria, alla quale trasmetteva le richieste di fuoco. Gli uomini delle pattuglie OC – normalmente proiettati in avanti per i sopraddetti loro compiti – erano considerati un po’ gli arditi dell’artiglieria».
Il giorno dopo l’inizio dell’operazione “Piccolo Saturno” si guadagna sul campo una medaglia d’argento al valor militare, con questa motivazione: «Pattugliere, comandato presso un Comando di Battaglione di fanteria, già valorosamente provato in precedenti azioni di guerra. Avvertiva la presenza d’una batteria nemica che da vicino danneggiava la nostra fanteria infliggendole perdite notevoli, spontaneamente e arditamente, da solo, trascinandosi carponi sul terreno intensamente battuto e trascinando con sé un collegamento telefonico volante, riusciva a portarsi a poche centinaia di metri dall’artiglieria nemica e a farvi effettuare dal suo gruppo un concentramento micidiale e preciso che in breve metteva fuori combattimento l’intera batteria. Avvistato e fatto segno a violento tiro nemico, riusciva a trarsi in salvo. Abrassimowo sud, 17 dicembre 1942» (p. 20).
Ma le sue motivazioni profonde non sono bellicistiche. Già molto giovane aveva avvertito il fascino della bellezza, decidendo che sarebbe stato un narratore; più avanti avvertì il richiamo potente della verità storica. E così «avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi contro Dio, operato dai comunisti. Volevo assolutamente conoscere la realtà del comunismo; per questo pregavo Dio di non farmi perdere quell’esperienza, che ritenevo sarebbe stata per me fondamentale» (p. 235).
E proprio durante questa terribile esperienza prende consapevolezza definitiva della sua personale vocazione di scrittore.
Dopo la morte dello scrittore, nel febbraio 2014, nel suo archivio è stato ritrovato un fascio di lettere, legate con uno spago e catalogate dallo stesso Corti, che aveva inviato dal fronte orientale. Ora quelle lettere, con molte fotografie inedite dello stesso autore, sono state pubblicate dal suo editore “storico” (EUGENIO CORTI, Io ritornerò. Lettere dalla Russia 1942-1943, Ares, Milano 2015, pp. 248, isbn: 978-88-8155-652-6) e si manifestano per quello che sono: una sorta di “diario epistolare” dell’esperienza russa.
Mi incontro con Alessandro Rivali, curatore dell’opera e lui stesso scrittore e poeta che trae ispirazione dalla storia.
Come è avvenuta la “scoperta” di queste lettere?
«Sono lettere che svelano una pagina sconosciuta della sua vita (l’avanzata in terra straniera, secondo i ritmi di una guerra “strana”, apparentemente facile), e il cantiere più remoto di alcuni suoi capolavori (annotò con scrupolo ogni esperienza). Immergersi in questo materiale inedito è stata un’avventura splendida, ma soprattutto inaspettata. Nella primavera del 2013, come editor Ares, stavo preparando una nuova edizione de I più non ritornano, lo straordinario diario di guerra in cui Corti raccontò la sua ghiacciata anabasi e la fine del 35° Corpo d’armata italiano sul Don.
Mentre sottoponevo a Eugenio le prove di copertina nella quiete della sua casa di Besana (testimone in pietra degli undici solitari anni di scrittura richiesti da Il cavallo rosso), egli volle fare una pausa mostrandomi una lettera ingiallita e sottilissima. Era una breve missiva indirizzata ai famigliari, redatta con la sua grafia forte e inconfondibile, perfettamente decifrabile. La lettera si era salvata dal disastro della ritirata. Descriveva una tenda nella steppa e la liturgia della vita al fronte. Incalzai subito il nostro autore chiedendogli se ci fossero altre testimonianze della stessa portata, se avesse scritto con regolarità prima dello sfaldamento del fronte. “Sì”, rispose inarcando in quel modo inconfondibile il sopracciglio…
Qualche minuto dopo potevo avviarmi verso l’ultimo piano della grande casa con le chiavi del solaio. La corrispondenza dalla Russia doveva giacere, così mi spiegò, in quella stanza senza fine insieme agli altri ricordi di guerra. Tra i bauli impolverati si poteva rivedere come in un film la vita di Eugenio: le divise ben ripiegate, un caschetto da motociclista, la fittissima corrispondenza con i lettori, le lettere degli amici sugli altri fronti di guerra, la contabilità dell’azienda famigliare. Purtroppo, nonostante una lunga ispezione, le lettere non riemersero. Eugenio non riuscì a fornire ulteriori indicazioni. Peccato, perché lui Eugenio conveniva che si trattava di materiale notevole…tenda
Le nebbie si sono diradate grazie alla tenacia di Vanda, inseparabile sposa di Corti, che le ha ritrovate lo scorso dicembre riordinando l’archivio, in vista del trasferimento alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Erano raccolte in un pacchetto con l’intestazione: “Posta spedita dalla Russia da Eugenio – raccolta completa”».
Per chi conosce già le opere di Eugenio Corti, emergono delle novità da questa raccolta di lettere?
«Credo che per tutti lettori di Corti affrontare Io ritornerò sarà un “viaggio” appassionante e ricco di sorprese. C’è, infatti, una miriade di spunti inediti che aiutano a comprendere meglio la personalità e le scelte di vita dell’autore (la sua decisione di partire volontario…), nonché un tratto decisivo della sua vita finora rimasto in ombra (l’arrivo al fronte russo e i primi mesi sul fronte orientale), assai più in ombra rispetto alla tragica Ritirata di cui abbiamo uno straordinario resoconto day by day ne I più non ritornano. Soprattutto, in queste lettere ritrovate possiamo ritrovare in “presa diretta” quella sete di verità e bellezza che fu il sigillo dell’intera ricerca letteraria di Eugenio Corti. Dal punto di vista letterario, l’elemento più sorprendente è costituito da quelle lettere che costituiscono in nuce l’ossatura delle grandi narrazioni della prima parte de Il cavallo rosso. E pensare che a quel tempo Corti era un sottotenente di artiglieria di soli 21 anni… Queste lettere furono il suo primo “cantiere” di scrittore».
Qualche particolare in più?
«Si potrebbe dire che ogni immagine della guerra in Russia si sia stagliata in modo indelebile nella memoria di Corti. Ogni singolo dettaglio, dalle persone alle osservazioni sulla flora e sulla fauna locale. Ebbene, le lettere ai famigliari (in prevalenza ai genitori) sono una sorta di block notes che un giorno si trasformerà nel grande romanzo corale che tutti conosciamo. Ecco qualche esempio: la partenza della tradotta per il fronte, la descrizione delle incursioni aeree, i dialoghi con i contadini del luogo, l’emozione di ricevere la posta dall’Italia, l’avanzata verso il Don, la costruzione dei rifugi invernali… Personalmente la lettera che mi ha colpito di più è stata quella in cui descrive alle sorelle l’incontro con i primi morti russi: “soldati che hanno compiuto il loro dovere”, la stessa espressione che ritornerà ne Il cavallo rosso».
Per gli storici quale valore può avere questa corrispondenza inedita?
«È sorprendente constatare l’efficienza della posta di guerra. Corti scrisse molto (abbiamo trovato un centinaio di documenti, ma chissà che qualcosa non salti ancora fuori dall’archivio di Besana) e quasi tutto arrivò a destinazione. Per uno storico questo materiale è una fonte privilegiata per comprendere la vita quotidiana di un ufficiale in grigioverde di quegli anni. Di certo, la vita militare di Corti ebbe un doppio volto. Lo spartiacque è segnato dall’offensiva sovietica “Piccolo Saturno” nel dicembre 1942. Lì iniziò la tragedia congelata che tutti conosciamo. Ma i primi tempi di guerra per il giovane artigliere furono molto diversi. Il suo reparto non affrontò prove pericolose. Il massimo inconveniente che dovette affrontare fu una slogatura al braccio provocatagli da una caduta dal camion… Corti ebbe il tempo di leggere, di chiedere libri a casa (insieme alle cartucce per la caccia), di cavalcare da “cosacco in terra di cosacchi”. Ci sono lettere bellissime e ricche di particolari che ci illustrano ogni momento della sua giornata (c’era sempre un piatto di pasta asciutta e la musica del grammofono era una grande compagnia, mentre i soldati giocavano a calcio nei prati…). Il carteggio è arricchito da un vasto corredo di fotografie realizzate dallo stesso Corti. È un altro spunto di novità e di studio».
Corti non ha mai fatto mistero della sua fede: questo aspetto si evince chiaramente nelle sue lettere. È per questo che poté affermare con sorprendente sicurezza “Io ritornerò”?
«Corti ebbe una fede limpida come il cristallo che emerge in modo significativo in numerosi passi del carteggio. La lunga lettera che scrisse dalla stazione di Bologna il 9 giugno 1942 in attesa di partire per il fronte è commovente e illuminante. Posso riportare uno dei passi più intensi: “Io parto sereno, allegro anche: ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia. […] E ricordatevi: tornerò. Da quanto vi ho detto prima è chiaro che devo tornare: lo sento. Potrò magari essere ferito o esser dato disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò. Sento che Dio mi guida per una strada che Lui solo conosce, ma che è ancora lunga”. Sì, Corti in cuor suo aveva compreso che gli era stata affidata una missione particolare: essere testimone della verità dei fatti. Doveva tornare.
La sua fede passava poi per aspetti molto concreti, per esempio, la decisione di frequentare i Sacramenti anche in circostanze complicate (la confessione e la Messa al fronte), oppure la volontà di devolvere il suo stipendio militare ai civili polacchi di cui aveva visto le indicibili sofferenze».
(Marco Dalla Torre, 04/03/16, Pagina Tre)